Storia

La vita di Ben Bradlee e il ruolo del giornalismo

Sono i cento anni dalla nascita dello storico direttore del giornale che negli anni Settanta s’impegnò particolarmente nel giornalismo d’inchiesta provocando mal di pancia alla politica
Ben Bradlee in una recente intervista televisiva
Amedeo Gasparini
26.08.2021 08:00

«Il rilassamento della stampa costerà molto alla democrazia.» Aveva ragione Ben Bradlee, il leggendario direttore del The Washington Post, nato oggi cento anni fa. Nell’introduzione alla sua autobiografia, A Good Life, Bob Woodward e Carl Bernstein lo ricordano come un brillante generale: calmo nella battaglia, sempre in grado di attrarre l’affetto dei soldati. Avventure tante: dal Vietnam al Watergate, passando per i Pentagon Papers. Bradlee ha seguito mezzo secolo di storia americana da un osservatorio unico. Con le inchieste ospitate sul Post sotto la sua direzione, ha contribuito ad espandere la fama del quotidiano nel mondo. Bradlee capiva la notizia, aveva fiuto; sapeva destreggiarsi nelle paludi della politica di Washington, tra lobby e interessi trasversali. Il caso politico-giornalistico dei suoi “top-years” fu lo scandalo che trascinò nella polvere Richard Nixon; nel caso Watergate, Bradlee si espose molto; e così fece anche la sua amica Katharine Graham.

Bradlee era un’istituzione del giornalismo americano: non riusciva ad immaginare un mondo senza i giornali. Caratteristica del buon giornalista è la curiosità: Bradlee ne aveva parecchia. Con francese e tedesco nel portafoglio linguistico – inusuale per molti americani – conosceva l’importanza dell’allegria sul posto di lavoro, sebbene la sua vita non fosse sempre stata costellata di eventi felici. La depressione lo colpì duramente sin dai primi anni di vita. Il padre perse il suo lavoro che fruttava cinquantamila dollari all’anno; il fratello aveva problemi di alcolismo. Sopravvissuto alla poliomielite e alla guerra nel Pacifico, Bradlee si laureò ad Harvard nel 1942 – dal 1795, tutti i cinquantuno membri dei Bradlee sono andati nel prestigioso ateneo. Dopo la guerra divenne reporter per il Boston Herald: è lì che si fece le ossa in redazione. Quando si trattava di giornalismo investigativo, «follow the money» diventò il suo primo comandamento.

Decisivo il passaggio a Newsweek, entrò al Washington Post il 2 agosto 1965. Giornale non prestigioso negli anni Cinquanta, perdeva un mucchio di soldi, circa un milione all’anno. Non aveva né un timoniere, né una visione; la sezione degli esteri era sguarnita. Nel frattempo, il mondo e il mondo del giornalismo correvano: i giornali concorrenti si accaparravano i migliori corrispondenti del Vietnam. Il Post aveva John Maffre, la United Press Neil Sheehan (che riceverà poi da Daniel Ellsberg le settemila pagine dei Pentagon Papers), l’Associated Press Peter Arnett (Premio Pulitzer per la copertura dal 1962 al 1975, poi star di CNN per il reporting nella Prima Guerra del Golfo) mentre il rivale The New York Times aveva David Halberstam (altro Pulitzer, poi attivo sul fronte del movimento dei diritti civili).

L’amicizia di Bradlee con John Fitzgerald Kennedy era cosa nota a Washington. Il direttore del Post considerava il presidente sofisticato, intellettuale e sognatore. I due erano vicini di casa a Georgetown e si conobbero per caso negli anni Cinquanta. L’intesa non pregiudicò l’indipendenza che Bradlee tentava di dare al giornale, accusa sia dal mondo della carta stampata che da quello della politica. Le ansie sul fatto o meno di coinvolgere nello scandalo Pentagon Papers gli uomini vicini a JFK è ben rappresentato nel film «The Post» di Steven Spielberg, dove Bradlee è interpretato da Tom Hanks. Di JFK, Bradlee condivise i traumi politici: dall’arretratezza americana in materia di Spazio (Yuri Gagarin aveva preso il volo nell’aprile 1961) alla crisi di Cuba (quando Fidel Castro arrivò quasi a provocare una guerra nucleare). Difficili i rapporti con Jacqueline Kennedy: se JFK adorava la politica e Bradlee la stampa, la First Lady detestava entrambi.

Due i matrimoni di Bradlee, ma in ambito lavorativo, la donna che però importantissima per Bradlee fu Kay, succeduta al marito Phil Graham alla guida, dietro le quinte, del Post. A cavallo tra politica e giornalismo, il volto della Graham era noto nell’establishment della capitale statunitense: odiata e adorata, la signora era piena di amici, ma Bradlee era un amico speciale. Durante i giorni dei Pentagon Papers i due considerarono anche di varcare le soglie del carcere, quando poi la Corte Suprema riteneva legittima i leaks pubblicati prima dal The New York Times, poi dal Post sulla conduzione della guerra del Vietnam, nonché tutte le bugie di una classe politica che stava affondando tra Saigon e Hanoi. In A Good Life, Bradlee ricorda quei momenti: le lunghe serate con Larry Stern e Howard Simons: il verdetto della Corte Suprema non era affatto scontato.

Se la vittoria della stampa – la vittoria del Primo Emendamento – provocò un eco nazionale, l’audience mondiale tremò quando scoppiò il caso Watergate. Con oltre cinquanta articoli in materia e la benedizione sia di Graham che di Bradlee, il tandem Woodward-Bernstein portò la popolarità del Washington Post alle stelle. Grazie ai due generazioni di giovani sognavano all’epoca di fare i giornalisti solo per smascherare le malefatte del potere. Fu un momento particolarmente brillante per la professione di giornalista; Bradlee aveva contribuito non solo alla fama dei due reporter, ma anche all’attrattività del mestiere in sé. La campagna del Post contro l’amministrazione Nixon fu notevole. La prima pagina all’indomani delle dimissioni del Presidente, 8 agosto 1974, «NIXON RESIGNS», ricordavano quelle che in occasione delle morte dei dittatori; tipo «STALIN IS DEAD», del The Philadelphia Inquirer, nel 1953.

La caduta in disgrazia di Nixon e dell’establishment repubblicano che rimase traumatizzato fino all’arrivo di Ronald Reagan alla Casa Bianca, diede grande prestigio alla stampa e al giornalismo come forza motrice della cosiddetta società civile. Bradlee aveva lasciato carta bianca ai reporter che si occupavano del Watergate. Aveva fiducia in loro, una qualità necessaria nel mestiere di giornalista. Questo venne ritenuto dagli anni Settanta in poi un vero e proprio servizio alla nazione. Tuttavia, è dal quel momento che due mondi – politica e giornalismo – sono andati (troppo) a braccetto, fino – agli occhi di molti – a diventare indistinguibili. Nello specifico, le accuse di molti è il doppiopesismo di gran parte della stampa, Post compreso, nei confronti dei presidenti repubblicani – da Nixon a George W. Bush, fino a Donald Trump – che Bradlee non vide alla Casa Bianca, dal momento che scomparve nell’ottobre 2014. Molti critici enfatizzano come mai nessun giornale abbia fatto le pulci a Kennedy o a Lyndon B. Johnson. In qualche modo, questo aspetto strideva con il giornalismo indipendente che molti – Bradlee in testa – dicevano di voler promuovere.

Nella sua autobiografia il Re del Washington Post spiega infine come la migliore stampa sia un mirabile esempio di impegno giornalismo, onestà, spirito critico, coscienza e coraggio. «La verità è la migliore difesa», ma anche il migliore attacco – ne è testimone la fermezza di Bradlee nella vicenda di Janet Cooke, la giornalista del Post che aveva ricevuto il Pulitzer per la storia di un giovane adolescente, Jimmy, caduto in circoli di droga, salvo poi ammettere che si era inventata tutto. Il giornalista dovrebbe essere un agente alla ricerca dei fatti; questo è quanto Bradlee credeva quando faceva batteva le dita sulla macchina da scrivere. Bradlee capiva l’importanza di offrire al lettore quello che più si avvicinava al vero, corroborato da prove, fatti, fonti affidabili. «Il Vietnam e il Watergate hanno incoraggiato la gente a mentire quando la verità si fa scomoda.» Ma tuttavia, «alla fine la verità emerge»: era questo il motto che Bradlee ripeteva ai suoi ragazzi.