L’arte di perdere

Algeria, 1940. Alí, un povero ragazzo della Cabilia, trova un frantoio in un fiume con i suoi fratelli. Grazie a questo ritrovamento, diventa uno dei più ricchi proprietari terrieri del crinale. Ma sarà anche l’inizio dei suoi guai, perché da lì in avanti ogni scelta che farà lo porterà a stare dalla parte sbagliata della storia. E siccome Alí crede nel maktúb, un destino già scritto a cui ci si può solo arrendere, si piega agli eventi cercando unicamente di sopravvivere. Inizialmente esce da eroe dalla battaglia di Montecassino. Ma poi, durante la guerra d'indipendenza algerina (1954-1962), la sua involontaria collaborazione con i francesi colonizzatori, i cosiddetti «piedi neri», gli costerà il marchio di harki, traditore della patria, da parte del Fronte di Liberazione Nazionale (FLN). Così, quando i partigiani, già invidiosi della sua ricchezza, lo minacciano e gli bruciano i terreni, decide di lasciare la Cabilia con sua moglie, Yema, e i suoi figli.
Chi lascia la propria patria soffre, è inevitabile, ma in una società che non accetta contraddizioni e pluralismi, l’appartenenza a una comunità diventa una parte scomoda della propria identità, e il rifiuto delle proprie tradizioni può essere rassicurante, se non addirittura inevitabile. Dunque, secondo l’irrefrenabile impulso che spinge ogni società di accoglienza a etichettare tutti i migranti come pezzi o microcosmi della loro cultura, e di conseguenza a dichiararli incompatibili con i nostri costumi, pensando in questo modo di conoscerli e di proteggersi da loro, i protagonisti, col passare degli anni, vengono bollati prima come immigrati indesiderati e poi come potenziali terroristi, e imparano presto a trasformare l’atto di rinuncia delle proprie origini in un’arte. Con questa filosofia di vita, Alí fa a meno del ruolo di patriarca autoritario per rassegnarsi a una vita di sfruttamento e dare, si spera, un futuro migliore ai suoi figli; mentre suo figlio Hamid rigetta le sue origini algerine nel tentativo di integrarsi al meglio nella patria d’adozione.
Pur essendo cresciuta nel silenzio familiare, Naïma, figlia di Hamid, si sente algerina, quindi si arrabbia quando uno zio la accusa di non comportarsi come una brava musulmana e di aver dimenticato le proprie radici. Perché come avrebbe potuto, lei, perdere un paese che non ha mai conosciuto, di cui suo padre si rifiuta di ricordare il più piccolo dettaglio e che suo zio non ha mai visitato? Per «ritrovare le sue radici», la ragazza decide di ricostruire la travagliata storia della sua famiglia, per comprendere la parola che li circonda come un destino oscuro: harki. Quando poi avrà l’occasione di recarsi in Algeria per un viaggio di lavoro, Naïma scoprirà una realtà, composta da artisti e intellettuali, diversa da quella vissuta dai suoi nonni, che hanno conosciuto solo l’Algeria rurale, ormai solo un’illusione che hanno cercato di ricostruire nella loro casa in Francia con oggetti tipici e piatti tradizionali. L’Algeria con cui Naïma è venuta in contatto diventerà parte della sua identità in un modo diverso da quello che significava per suo padre e suo nonno. Capirà anche che è possibile venire da un Paese senza appartenergli, perché un’appartenenza nazionale non si trasmette per via genetica, se nessuno ci trasmette delle determinate tradizioni, quelle non stanno automaticamente dentro di noi.
In un momento in cui la situazione mondiale è caratterizzata da flussi migratori frequenti e costanti e dal pluralismo culturale che ne consegue, è più che mai importante raccontare le storie dei migranti, farli uscire dalla massa in cui sono confinati e capire le varie cause che stanno alla base di queste esperienze, troppo spesso inglobate in una categoria astratta e uniformata culturalmente, caratterizzata da stereotipi negativi, che crea distacco, sospetto e diffidenza. Prendendo come punto di partenza la sua storia personale - suo padre è di origine algerina - Alice Zeniter offre l’esempio di una di queste storie. Con un registro che alterna un tono da fiaba a uno reale, descrizioni suggestive e toccanti e momenti duri e brutali, l’autrice raggiunge una straordinaria potenza narrativa e riesce a tratteggiare con accuratezza un affresco storico e familiare in cui prevale l’introspezione dei personaggi. Tre voci si susseguono nel romanzo, nonno, padre e figlia, che si fanno portavoce di una generazione e di un modo di intendere l’identità e la nazionalità. Se per Alí l’identità è un ruolo sociale definito da una tradizione millenaria, Hamid sente il bisogno di emanciparsi dai valori tradizionali e di definire da solo la propria identità e il proprio destino. Naïma, infine, vive in un’Europa dai confini liquidi, minacciati dal terrorismo, e per far fronte a un presente confuso e precario vuole colmare questo vuoto che deriva dal silenzio e che circonda le origini della sua famiglia. Ma l'Algeria di Naïma non sarà né un punto di arrivo né una certezza, solo un modo per tornare in «movimento», che alla fine corrisponde all'etimologia di harki.