Napoleone 200 anni dopo: commemorare, non celebrare

Commemorare, non festeggiare. È già qualcosa nell’epoca della cancel culture, dove il passato viene interpretato con gli occhi del presente, dove la ghigliottina della morale attuale taglia la testa a quella trascorsa. Di ghigliottine ne sapeva qualcosa Napoleone Bonaparte – morto due secoli fa, il 5 maggio del 1821 – che, dopo il periodo del Terrore a seguito della Rivoluzione Francese, prese autoritariamente in mano le redini della République, fino a dichiararsi signore d’Europa, dunque imperatore nel 1804. Nato quando la sua adorata Corsica venne annessa al Regno di Francia di Luigi XV, iniziò la carriera nell’esercito di Sua Maestà.
Grande stabilizzatore, soldato valoroso – il militare che arrivò fino alle piramidi – Napoleone aveva un ego smisurato. Astuto manovratore di esercito e di palazzo, a metà degli anni Novanta del Settecento schiacciò alcune forze rivoluzionarie a Parigi e difese la Francia repubblicana in guerra con le monarchie europee del suo tempo. Con gli austriaci, nel 1797 firmò il Trattato di Campoformio, che riconobbe alla Francia il Nord Italia. Nel gennaio 1799 Napoli divenne capoluogo della Repubblica Partenopea.
Popolare fino al fallimento in Egitto, riuscì tuttavia ad orchestrare un coup d’état da maestro, il 18 brumaio (9 novembre), 1799. Costituito il direttorio, le Général accentrò il potere politico nelle sue mani. Nel 1802 ripristinò la schiavitù e attrasse sempre più antipatia da parte di prussiani, austriaci e russi. Sotto la guida di Bonaparte, i francesi vinsero a Marengo (1800), Austerlitz (1805), Jena (1806), Wagram (1809). Nel frattempo, Napoleone continuava ad incanalare nel nazionalismo francese gli istinti bellicosi di un popolo che usciva da lustri traumatici, in cui la Storia europea si era messa a correre, al ritmo della rivoluzione industriale.
Bellicoso, carismatico, nazionalista, ma anche narcisista, spregiudicato, impaziente. L’antesignano, in un certo senso, di alcuni leader dell’oggi – non è un caso che personaggi come Vladimir Putin, Recep Tayyip Erdoðan e Jair Bolsonaro vengano accusati di Bonapartismo. Tutti i presidenti francesi hanno dovuto fare i conti con l’ingombrante despota del passato: da Charles De Gaulle a Emmanuel Macron; uomini che hanno saputo parlare direttamente ai francesi e alla loro pancia. Adorato da molti francesi del tempo, celebrato da successori e imitatori, Napoleone ha lasciato il segno. Dal Codice civile sino alle riforme scolastiche.
La Légion d’honneur venne creata da Bonaparte, ma era un trucco per fare leva sulla vanità dei militari e dei seguaci che volevano entrare nelle sue grazie. Divisivo e controverso, il Generale è una figura che tutt’ora spacca l’opinione pubblica, francese e non solo. Da una parte oggi lo si accusa di misoginia, schiavismo e autoritarismo; dall’altra invece lo si dipinge come l’uomo della nazione, il riformatore, il padre-padrone. Come un collega del futuro – quell’Adolf Hitler che non imparò dall’Imperatore le asperità del gelo di Russia – ci fu un momento in cui Napoleone controllava quasi tutti gli stati limitrofi, con l’eccezione della Gran Bretagna.
Londra infatti gli inflisse una sconfitta navale a Trafalgar nel 1805: uno smacco simile lo subì la Luftwaffe di Hermann Göring nei cieli inglesi nel 1940. Gli uomini non imparano dalla Storia. Un motivo in più, oggi, per studiare e capire Napoleone, commemoralo, ricordarlo, ma non celebrarlo. La sconfitta del Generale in Russia gli fu letale, ma a differenza del Führer, giunse a Mosca. Nella terra di Alessandro I dovette fare i conti con un altro generale, il Generale Inverno, che infiacchì i francesi e li costrinse alla ritirata. I nemici in Europa non aspettavano altro e gli fecero la festa al suo ritorno in Occidente.
La coalizione che vedeva ai vertici, tra gli altri, Arthur Wellesley – il Duca di Wellington – e Gebhard Leberecht von Blücher – Feldmaresciallo prussiano –, lo sconfisse e lo mandò in esilio sull’isola d’Elba, dove fu toccata e fuga. E fu subito Waterloo, nel 1815: la sconfitta definitiva; quella che lo portò nell’isola di Sant’Elena, nell’Atlantico. Isolato dal mondo che aveva aiutato a influenzare, morì il 5 maggio di due secoli fa; «Ei fu», come scrisse Alessandro Manzoni, nella nota poesia.