Non serve l’imposizione, bisogna cercare il dialogo

Come membro del rettorato e prorettrice, Daniela Mondini ha due compiti: da una parte quello che riguarda le scienze umane, in quanto storica dell’arte, e dall’altra quello di vegliare sulle pari opportunità, a stretto contatto con Gloria Dagnino, responsabile del Servizio pari opportunità, operativa sul fronte.
In cosa consiste il suo ruolo di responsabile per le pari opportunità? Quali sono i casi in cui operate?
«Mi occupo di vegliare sulle pari opportunità, forse perché sono l’unica donna membro del rettorato, a parte la direttrice amministrativa dell’USI. La cosa più importante che sono riuscita a creare è la Delegazione per le Pari Opportunità, cioè un gruppo di donne e uomini sensibili a queste tematiche, che comprende membri delle cinque facoltà dell’USI e a cui partecipa il Decano stesso. Abbiamo due persone di ogni facoltà con le quali discutere le problematiche che sorgono e vegliare nelle procedure di reclutamento accademico di una nuova professoressa o un nuovo professore. Infatti, come sappiamo, c’è ancora un certo disequilibrio fra i membri maschili e femminili del corpo professorale, uno dei miei compiti è proprio quello di richiamare l’attenzione su questo fronte. Inoltre le pari opportunità non riguardano solo questioni di genere, ma anche questioni relative per esempio alle disabilità o a problemi di apprendimento e a come regolamentare gli esami in questi casi. Inoltre anche discriminazioni riguardo alla provenienza o alla religione rientrano in questo campo, ma in USI per ora non ne sono stati segnalati casi. Diverse casistiche che abbiamo avuto riguardano evidenti discriminazioni di genere, con reclami, che abbiamo poi sostenuto, e anche casi di mobbing».
I dress code (come nel caso della scuola di Pinchat a Ginevra) hanno reminiscenze sessiste? Si riferiscono, cioè, con più frequenza all’abbigliamento femminile che a quello maschile?
«Innanzitutto, c’è una storia precedente, con cui forse anche le ragazze di quella scuola media hanno un po’ giocato, che riguarda il movimento per la liberazione della donna negli anni 60 e 70, in cui uno dei primi forti gesti è stato quello di togliere il reggiseno e di sventolarlo sotto il naso dei maschi, come atto di liberazione e autodeterminazione sul proprio corpo e sul proprio abbigliamento. Poi c’è la questione, naturalmente, anche dell’utilizzo del corpo femminile per promuovere la vendita di prodotti, dunque come oggetto con un certo sex-appeal, e quindi anche strumentalizzato poi in diversi campi. Questo è l’antefatto e credo che queste adolescenti giochino con questa memoria ribellandosi in maniera così esplicita. Poi c’entrano anche le mode, sono cose che lasciano il tempo che trovano, poi cambiano e le cose si calmano da sé. In quella scuola sono stati troppo rigidi con l’imposizione di un regolamento e di misure punitive. In ogni caso i dress code maschili a mio parere sono anche più rigidi quando ci troviamo nel mondo del lavoro: per esempio gli avvocati, tutti in nero e incravattati, sono tenuti a indossare abiti molto più formali, e solo in occasione di eventi ricreativi organizzati dal loro studio hanno poi la possibilità di vestire uno stile più informale».
Serve all’università l’imposizione di un dress code?
«Noi all’USI non abbiamo un dress code e non si è mai presentata nessuna esigenza di averne uno. In estate, per esempio, agli esami, ho sia studentesse che studenti che vengono coi pantaloncini più corti che hanno e personalmente non ho un problema con questo. Ovviamente abbiamo un regolamento. Quindi, se qualcuno proprio ci tiene a metterci in difficoltà offendendo le convenzioni di pudore in uno spazio istituzionale come è l’università, abbiamo gli strumenti per intervenire, questo è chiaro, e io interverrei nelle stesse misure sia nei confronti dei ragazzi che delle ragazze. Ma non abbiamo delle direttive precise riguardo per esempio a quanti centimetri sopra il ginocchio deve arrivare una minigonna e spero che non si arriverà mai ad avere qualcosa di simile. Bisogna anche tener conto che nella nostra comunità universitaria abbiamo persone appartenenti a culture e religioni diverse. Però appunto, sono cose delicate».
Nelle scuole è meglio imporre norme d’abbigliamento o puntare sull’auto-consapevolezza degli studenti?
«Io personalmente non regolamenterei ma cercherei il dialogo. Perché sì, a volte alcune ragazze potrebbero trovarsi in situazioni un po’ difficili con compagni di scuola o con professori o con qualche estraneo, perché purtroppo viviamo ancora in una società nella quale il corpo femminile viene considerato più accessibile, anche per mezzo di forme aggressive di avvicinamento e quindi è necessaria una forma di consapevolezza e autoprotezione. E appunto, bisogna appellarsi al dialogo per sensibilizzare le ragazze e i ragazzi che sarebbe meglio evitare certe situazioni».
Qual è il limite da non superare per i provvedimenti presi dalle scuole nei confronti di chi non rispetta le norme?
«Non mi è sembrata sbagliata la misura della maglietta, ovviamente senza scritta, purché continuino a venire a scuola. Però sarei contro ogni tipo di misura più pesante, come l’espulsione. Mi appellerei semplicemente alla ragione».
Ha senso portare queste tematiche all’attenzione dei politici, come hanno fatto gli studenti di Ginevra che hanno inviato una lettera a una consigliera di Stato?
«È giusto portare questioni di pari opportunità all’attenzione dei politici come si è fatto con lo sciopero femminista dell’anno scorso. In questo caso specifico forse no, ma non conosco tutti i dettagli; diciamo che abbiamo veramente problemi più seri e importanti, e mi sembra che la reazione non sia adeguata al livello di gravità della problematica».