L'editoriale

Morte solitaria nella città senza più affetti

La storia di una donna deceduta a Lugano in completa solitudine fa riflettere ma anche interrogare
Mauro Spignesi
26.06.2022 07:00

Se fosse un film, nei titoli di coda bisognerebbe mettere bene in evidenza la scritta: tratto da una storia vera. E la storia è quella di una donna che viveva a Lugano, praticamente dimenticata, inghiottita dalla società distratta che abbiamo costruito.

Una società che ha incautamente affidato i legami sociali a una tecnologia che ha finito per sedarli consegnandoli a un perenne senso di solitudine. La donna che viveva a Lugano è morta sola. Al suo funerale c’erano solo i poliziotti che hanno seguito le ultime pratiche burocratiche.

La sua storia l’ha racconta una sua amica che vive in Italia e che aveva conosciuto anni fa. Era una signora normale, viaggiava, ogni tanto usciva a cena. Poi la pandemia, il lockdown che ha tenuto lontane le persone. Le due comunque si sentivano, seppure non con una certa regolarità. Sino a quando in occasione del suo compleanno, a marzo, l’amica italiana ha provato a chiamarla. Ma nulla. Non rispondeva neppure ai messaggi. Allora è arrivata a Lugano e ha suonato alla porta di casa. Niente. È andata in un bar lì vicino, si è fatta prestare una penna e un foglio e le ha scritto un messaggio, indicando anche il suo numero di telefono nel caso l’avesse perso. Lo ha imbucato nella cassetta delle lettere notando che era colma di corrispondenza. Tre giorni dopo quel numero di telefono è stato composto da un agente di polizia: la donna era morta. Sola. L’amica, non essendo una parente, ha potuto offrire poche informazioni.

Proprio poche settimane fa a Lugano, ma anche in altre città, si è svolta la Festa dei vicini, per promuovere la solidarietà, far tornare i quartieri piccoli borghi dove i rapporti interpersonali un tempo erano un valore condiviso che non poteva prescindere «dall’altro necessario», come lo ha definito lo psicologo sociale Piero Amerio in un suo saggio di qualche anno fa. Pensare invece che ancora oggi una persona possa morire sola in una città, senza conforto, senza un ultimo saluto, fa venire i brividi. Soprattutto se pensiamo che il Ticino progressivamente sarà sempre più anziano.

È vero che si fa tanto, ci sono palestre, associazioni, feste come quelle dei vicini, ma l’impressione è che tutto questo non sia sufficiente per riannodare il filo perduto dei legami sociali. Anche tra padri e figli, le relazioni sono affidate agli sms, i sentimenti scanditi dagli emoticon e non più da parole, ragionamenti, abbracci. La tecnologia ha aiutato la scienza e la ricerca, ha annullato le distanze, ma ha anche sollevato una barriera psicologica, umana e affettiva. Tutto questo ha allentato la rete sociale, non si fa più una visita, una telefonata agli amici solo per sapere come stanno.

Bisognerebbe, anche se sembra un discorso semplicistico e banale, tornare alla centralità della persona vista come individuo in relazione con gli altri e ritessere una dimensione comunitaria. Altrimenti se la nostra vicina, un nostro parente, un amico, non si fanno sentire per mesi nessuno si accorgerà della loro assenza. Anche nelle nostre moderne «città smart», ma sempre più svuotate di umanità.