Addio a Philippe Daverio, artista della divulgazione

Un po’ come Stendhal (sulla cui tomba a Montmartre c’è scritto semplicemente «Arrigo Beyle, milanese») aveva fatto dell’amore per Milano il suo fulcro per conoscere, studiare e trasmettere le meraviglie culturali d’Italia. Era un meneghino nato in Alsazia Philippe Daverio che di questa sua capacità di osservare l’Italia dal di fuori faceva uno dei suoi cavalli di battaglia. «Mio nonno era varesotto, raccontava spesso. Nell’Ottocento è partito per l’Alsazia, dove è nato mio padre, che quindi era più crucco che italiano. Io sono nato e cresciuto lassù, e sono venuto in Italia a fare l’università. Il mio, dunque, è un caso curioso, perché la lingua che parlo e che scrivo in realtà non l’ho imparata a scuola, ma con la prassi: non so niente di grammatica italiana, io. E la letteratura italiana che conosco, la conosco come può averla letta uno straniero dell’Ottocento innamorato del Bel Paese». E come Stendhal appunto la sua morte (avvenuta l’altra notte all’Istituto dei tumori in seguito ad una breve malattia che non gli ha lasciato scampo) se ovunque ha suscitato cordoglio e commozione ha spezzato il cuore soprattutto agli ambienti culturali del capoluogo lombardo.
Dopo la Bocconi mai finita («allora si andava all’Università per studiare non per laurearsi» spiegava ridacchiando) Daverio aveva iniziato la carriera come mercante d’arte: quattro le gallerie d’arte moderna da lui inaugurate, di cui due a New York. Dal 1993 al 1997 era stato assessore alla Cultura del Comune di Milano, dove si occupò soprattutto del restauro e del rilancio del Palazzo Reale e della ricostruzione del Padiglione d’Arte Contemporanea distrutto a seguito dell’esplosione della bomba mafiosa del 27 luglio 1993. Opinionista per «Panorama», «Liberal», «Vogue», «Gente», consulente per la prestigiosa casa editrice Skira, Daverio si è sempre definito uno storico dell’arte. E in questa veste lo scopre il pubblico televisivo di Rai3: nel 1999 in qualità di inviato speciale della trasmissione Art’è, nel 2000 come conduttore di Art.tù, poi autore e conduttore di Passepartout, programma d’arte e cultura che ha avuto grande successo e notevole riconoscimento di critica e di pubblico. Si era occupato inoltre di strategia ed organizzazione nei sistemi culturali pubblici e privati e attività di docente: è stato incaricato di un corso di storia dell’arte allo Iulm di Milano e ha tenuto corsi di storia del design al Politecnico di Milano.
Dal 2006 era professore ordinario di sociologia dei processi artistici alla Facoltà di Architettura (dipartimento Design) dell’Università degli Studi di Palermo. Nel 2008 era stato nominato direttore della rivista d’arte Art e Dossier della casa editrice Giunti. Nel 2010 è stato anche autore e conduttore di Emporio Daverio su Rai5, una proposta di invito al viaggio attraverso le città del Belpaese, un’introduzione al museo diffuso ed uno stimolo a risvegliare le coscienze sulla necessità di un vasto piano di salvaguardia. Autore di numerose pubblicazioni e saggi, tra cui figurano: Il Museo Immaginato (Rizzoli, 2011), Il Secolo lungo della Modernità (Rizzoli, 2012), Guardar lontano veder vicino. Esercizi di curiosità e storia dell’arte (Rizzoli, 2013).
Inseparabile papillon
Eccentrico nei modi, l’inconfondibile voce roca e l’inseparabile papillon a renderlo quasi iconico ( su Topolino era diventato presto l’irresistibile critico Philippe Paperio) senza peli sulla lingua quando c’era da polemizzare denunciando la violenza dell’ignoranza non soltanto italiana, Philippe Daverio è stato soprattutto grazie alla sua popolarità televisiva un esempio di resistenza culturale alla decadenza della nostra epoca insegnando l’amore per l’arte, la storia, la bellezza e la conoscenza con umanità, immediatezza e competenza da vero «artigiano» della divulgazione come si era definito in un’intervista alla RSI. «Chi si occupa di cultura non deve sentirsi superiore agli altri ma deve cercare di trasmettere ciò che vale la pena di conoscere e l’amore per questa conoscenza»: fondandosi su questi presupposti Daverio aveva impostato quasi tutte le sue trasmissioni televisive con format originali dedicati al viaggio attraverso l’Italia, e l’Europa dove con leggerezza, ironia e profondo amore da vero conoscitore dell’arte e dei suoi capolavori sbalordiva e avvinceva anche il telespettatore più svogliato. Così, proprio lui che non era nemmeno di lingua madre italiana, ha saputo rivelarsi tra i pochissimi, pur con il suo stile unico e inimitabile, in grado di competere con la grande scuola del documentarismo televisivo europeo targato BBC o ARTE. Non a caso pur occupandosi di mosaici bizantini o di arredamenti Biedermeier gli ascolti, in fasce orarie fuori da ogni gara di share, lo ripagavano sempre, superando spesso e volentieri il milione di spettatori.
Trasmettere con ironia la cultura e, più importante ancora, l’amore per la cultura: ecco la più grande eredità e il più grande merito di Daverio. «La verità - confessò candidamente una volta in un’intervista - è che la passionalità può essere trasmessa. Io, infatti, non faccio divulgazione, ma racconto le mie scoperte. In televisione, alla gente, io non dico quello che c’è scritto in un libro, ma cerco di raccontare ciò che io stesso vivo come percorso di riconoscimento e di indagine. E chi mi ascolta riesce a seguirmi». Ci mancherà, eccome se ci mancherà.