Alla Scala il «Quartett» di Luca Francesconi

La fonte, il romanzo epistolare Le Liaisons Dangereuses (1782) di Laclos, è un j’accuse contro la società aristocratica ancien régime, mondo avvitato su sé stesso che nulla vuol sapere del suo «fuori». La riduzione teatrale più famosa, Quartett (1982) di Heiner Müller, è la metafora sociale e esistenziale di un intellettuale tedesco che ha attraversato il secolo scorso vivendo la caduta di Weimar, del nazismo, del muro. Uno spaccato violento e spietatamente negativo scritto da un innamorato di antichi archetipi e dei mistici.
La versione operistica del lavoro, commissionato nel 2011 dalla Scala al compositore milanese Luca Francesconi, parte dalla visione di Müller, ne riprende il tema sociale dipanando la vicenda nell’arco temporale che va dal salotto settecentesco di Laclos al Führerbunker. Müller condanna la Marquise de Marteuil ora salva perché rinnega la sua esistenza svuotata dallo stordimento tecnologico e si apre all’oggi, allo tsunami che travolge la nostra vita agiata e annoiata con lo sbarco delle migliaia di disperati provenienti dal sud del mondo con le carrette del mare.
Fino al 22 otobre, alla Scala dunque Qurtett di Francesconi. Suo anche il libretto tratto da Müller con testo in inglese: il tedesco avrebbe fatto parlare di espressionismo, l’italiano di madrigalismo... Mentre l’inglese pare la lingua musicalmente meno compromessa. L’allestimento, superbo per eleganza, sobrietà e taglio surreale, è firmato da uno dei direttori del gruppo catalano La Fura dels Baus, Àlex Ollé. Due i personaggi, la Marquise de Merteuil (il soprano scozzese Allison Cook) e il Vicomte de Valmont (il baritono scozzese Robin Adams), raddoppiati da travestimenti e giochi di specchi (appunto un “quartetto“).
La partitura, diretta dall’esperto Maxime Pascal, è scritta per due orchestre e coro. In buca quella da camera che accompagna i dreams dei protagonisti. Al sesto piano, in sala prove, ma consegnata alla platea da un complesso sistema tecnologico, quella più grande e il Coro con Bruno Casoni che rappresentano l’eco del mondo.
Perplessità nei riguardi della musica d’oggi? Via i pregiudizi. Quartett è esteticamente magnifico, concettualmente attuale, musicalmente elegante e abile nella stilizzazione delle molte forme tradizionali che si celano sotto un reticolo che rifiuta le etichette e scorre lento, pacato, contaminato e arricchito dall’elettronica.
Buio. Un brusio lento di persone e strumenti. Nuvole bianche si avvicinano inquietanti, sorvolano una grande città, si fermano davanti alla finestra di un palazzo d’antan. Dietro quella finestra un cubo nero sospeso a mezz’aria e dietro a lui altre nuvole, volti, corpi, situazioni erotiche. Dentro un tavolo e due sedie in stile settecento e i due personaggi in abiti moderni. Il colloquio tra i due è serrato e non conosce pruderie, congela amore e sesso in uno scontro cerebrale ricco di eccessi. Morte, decomposizione, piacere. E soprattutto sesso, “roba da servi”. Tuttavia questi nostri contemporanei che hanno rinnegato cuore e umanità non hanno portato a termine il processo. In lei resta un piccolo spazio per il sentimento della gelosia. Un’ombra dolente che da un lato la induce a avvelenare Valmont e dall’altro le permette di sentire le voci che gridano dall’esterno: le carrette del mare stracolme di vite a perdere. Uno dei motivi della sua conversione (“vado per strada vestita del mio sangue”) che la umanizzata e salva. Proiezioni e parole sono assai spinte, come appunto in Müller. O in Brecht. Assai forte la scena dell’accoppiamento “nel nome di Dio” con la vergine Volanges. I due protagonisti sono ottimi nel canto che richiama l’espressionismo come nei recitativi. Attori formidabili nel gioco di specchi e travestimenti che trasformano lui in lei e lei in lui. Dopo l’inizio molto della partitura sfugge: Quartett è troppo intriso di richiami e allusioni perché lo si possa intendere nella sua interezza. Comunque vola via in poco più di un’ora, accattivante e perfetto nella molteplicità. Il successo è vivo. Specie se si comprende che quelli che dovrebbero gettare le consolatorie sovrastrutture psicologiche siamo proprio noi, chiamati singolarmente a interagire con un modo che cambia e toglie certezze. Ma offre anche la possibilità di redenzione.