Grande schermo

Almodovar tra maternità e voglia di riconciliazione

Nel suo nuovo lungometraggio «Madres Paralelas», il regista iberico coniuga magistralmente melodramma e riflessione sociale
«Madres Paralelas» segna la settima collaborazione tra Penelope Cruz e Pedro Almodovar. © WARNER BROS.
Antonio Mariotti
10.12.2021 20:23

A 72 anni Pedro Almodovar non è più il monellaccio ribelle della Movida madrilena ma, film dopo film, ha saputo trasformare il suo cinema in uno spazio privilegiato di profonda riflessione ad ampio respiro sulla storia del proprio Paese dopo la caduta del franchismo. E ciò senza rinunciare ai presupposti di base della sua poetica: l’amore per il melodramma e l’accento posto sui personaggi femminili e sulle figure materne in particolare. Se in questo senso il suo penultimo (e bellissimo) lungometraggio Dolor y Gloria, interpretato da Antonio Banderas e con chiari riferimenti autobiografici da parte del regista, può essere considerato una leggera deviazione sul percorso, la sua nuova opera Madres Paralelas ne è invece il coronamento.

I drammi della guerra civile

Per la prima volta in 45 anni di carriera, Almodovar parla infatti esplicitamente dei drammi e dei crimini della dittatura che ha tenuto in scacco la Spagna dalla fine della guerra civile nel 1939 fino al 1975. Lo fa con un chiaro obiettivo di riconciliazione: conquista sociale che non può però essere disgiunta da un comportamento che punti sulla chiarezza e sull’onestà assolta rispetto a questo oscuro passato. Questo tema - particolarmente importante nella Spagna di oggi ma di valenza universale - è al centro della trama «parallela» del film ma si riflette intimamente, soprattutto dal punto di vista metaforico, nella storia di Janis e Ana, le due madri interpretate da Penelope Cruz e Milena Smit. Madres Paralelas è un film quasi totalmente al femminile (tra le altre interpreti ci sono Aitan Sanchez-Gijon e l’immancabile Rossy de Palma) ma paradossalmente per riportare alla luce la verità sul passato (cioè per ritrovare una fossa comune nei pressi di un villaggio della Navarra) ci vuole un uomo: il calmo ma determinato Arturo (Israek Elejalde), archeologo forense che Janis, fotografa di professione, incontra per lavoro e con il quale vivrà un rapporto non certo facile ma salvato in extremis dall’onestà di entrambi.

La tentazione di mentire

Ed è proprio questo il messaggio che intende veicolare il regista spagnolo: tutti i suoi personaggi ad un certo punto hanno la forte tentazione di mentire, di nascondere qualcosa d’importante alle persone care, di fingere una serenità che è solo di facciata, ma per fortuna si rendono conto in tempo che sarebbe la strada sbagliata e, soprattutto nel caso di Janis, preferiscono la scomodissima verità a un’insostenibile ma confortevole ipocrisia. Questo discorso morale, ma mai moralistico, affonda le proprie radici nel consueto universo almodovariano, fatto di estrema cura per ogni dettaglio che appare sullo schermo. I costumi, le scenografie, i colori, persino gli accessori che Janis fotografa per vivere, non sono mai scelti a caso, sono tessere di un puzzle emotivo assolutamente coerente. E non è nemmeno un caso che la protagonista sia una fotografa discendente di fotografi: per il regista iberico è chiaramente l’immagine la traccia fondamentale che ci può illuminare sui segreti del passato e del presente. Senza però dimenticare la musica di Alberto Iglesias che nel corso di tutto il film rappresenta un elemento fondamentale, a tratti volutamente in contrasto con quanto si vede sullo schermo. Il cinema di Almodovar passa quindi dagli occhi ma anche dalle orecchie, dando origine a situazioni dove tutti i sensi vengono sollecitati, soprattutto nelle scene in cui compaiono i neonati. Per essere in sintonia con la propria identità, sembra voler suggerirci il regista, non basta un test genetico ma bisogna avere il coraggio di abbracciare, come fa Janis con Ana, anche chi avrebbe potuto diventare il nostro nemico. È il prezzo da pagare per vivere in armonia in un mondo migliore.