«I mercanti di dubbi sono troppi, la questione clima è drammatica»
Mercoledì prossimo, 25 settembre, si apre a Mendrisio il quarto ciclo di conferenze di “Emergenza Terra” promosso dal dipartimento ambiente, costruzioni e design della SUPSI. Il primo relatore sarà Andrea Rinaldo, ordinario di Costruzioni idrauliche all’Università di Padova e direttore del Laboratoire d’Écohydrologie del Politecnico federale di Losanna, nonché vincitore, nel 2023, dello Stockholm Water Prize, il premio per gli studi sull’acqua più prestigioso al mondo.
Professor Rinaldo, vorrei partire - se lei è d’accordo - chiedendole in maniera diretta: che cos’è l’acqua oggi? C’è, a suo parere, una consapevolezza diffusa dell’importanza di questo elemento per la vita umana?
«Credo che tutti capiscano come il governo dell’acqua sia sempre stato, e sia tuttora, al centro della storia. Che tutti abbiano, cioè, la percezione del consumo d’acqua come indicatore di fondamentale importanza del benessere di una comunità. Molti di noi, però, danno anche per scontato che, aprendo il rubinetto di casa, arrivi - nella quantità necessaria - acqua di qualità, sufficiente a rispondere ai nostri bisogni. Mentre non è penetrato nell’immaginario collettivo un altro elemento: ovvero che questo senso di certezza e di sicurezza è minato dal cambiamento climatico dovuto al riscaldamento globale. Un fenomeno completamente antropico, ovvero generato dall’uomo, e causato dalla massiccia concentrazione di gas serra nell’atmosfera. Il riscaldamento globale ha conseguenze catastrofiche sulla distribuzione dell’acqua. E io vedo con grande preoccupazione come questa sensazione di urgenza non esista. Non ci sia. Servirebbe una partecipazione “virale” al tema. Qualcosa che purtroppo manca».
Effettivamente, dopo una fase espansiva, nell’ultimo anno la grande spinta che si stava avvertendo in direzione della questione climatica sembra essersi fermata, quando non addirittura retrocessa.
«Sì, è retrocessa. Ed è retrocessa per molte ragioni, in un mondo che si è rivelato complicato e difficile. Immaginavamo di non dover più fare i conti con le conseguenze delle carestie, delle guerre, delle epidemie. Pensavamo, in fondo, che tutto questo non sarebbe più successo. E invece, ci siamo sbagliati. Abbiamo conosciuto una nuova pandemia. Le guerre continuiamo a vederle e nemmeno le carestie ci sono state risparmiate: pensiamo alle conseguenze del blocco dei cargo ucraini a Odessa per effetto dell’invasione russa e alla crisi alimentare dei Paesi africani che per il grano, base della propria sussistenza, dipendono dalle esportazioni di Kiev».
Problemi più urgenti che scacciano altri problemi, considerati - erroneamente - meno gravi.
«È così. Purtroppo, tutto ciò rende più difficili le indispensabili politiche di mitigazione dell’emissione di gas serra. Sono molto pessimista sul fatto che il Nord del mondo riesca a mettersi d’accordo con il Sud del mondo su questo punto, non avendo il Nord del mondo alcuna credibilità in tema di risparmio o di moderazione dell’uso delle risorse naturali: ci siamo mangiati le nostre e anche le loro. In ogni caso, senza la riduzione delle concentrazioni di gas serra ci resta soltanto l’adattamento, possiamo cioè semplicemente chiederci che fare per portare a casa la pelle».
Una prospettiva comunque insufficiente.
«Senza dubbio. Basti pensare che 800 milioni di africani, entro i prossimi 10 anni, vivranno in città che oggi non esistono, non ci sono ancora. Predicare il contenimento delle emissioni, in queste condizioni, è difficilmente credibile. Resto molto pessimista su quello che ci aspetta».
Torniamo al tema iniziale, l’acqua. È vero che bisognerebbe subito porsi il problema di usarla diversamente, di non sprecarla così come, invece, accade?
«Il grande consumo d’acqua è un punto nodale. Che qualcuno ha affrontato nel modo giusto. Mi riferisco, ad esempio, a Israele, Paese che pur non avendone bisogno ha posto una spasmodica attenzione al risparmio idrico. Noi dovremmo occuparci del problema sia per una ragione culturale, per una questione di principio, sia per fronteggiare il cambiamento climatico».
In che senso?
«Prendiamo i periodi di siccità, sempre più intensi e più complicati da prevedere. Il grosso del consumo d’acqua è legato alla produzione primaria, all’agricoltura. Solo il fatto che ci si debba chiedere quali colture, anche iconiche, potranno essere possibili a fronte di cima di un clima in continuo cambiamento giustifica quello che dicevo prima. Quest’estate, in Sicilia, c’è stata una siccità definita “da grave a gravissima”. Ma nel 2022, e fino ad aprile del 2023, per un anno e mezzo quindi, l’Europa centrale ha anch’essa patito una gravissima siccità che ha causato problemi di ogni tipo. In quella circostanza, in Sicilia ci furono invece precipitazioni superiori alla media. Siamo di fronte a qualcosa di imprevedibile, nello spazio e nel tempo. La buona fortuna non dura per sempre. Ecco perché rendere virale il senso di partecipazione intorno al destino di questo povero pianeta sarebbe fondamentale. Finché questo non accadrà, credo che non riusciremo a fare un vero passo avanti».
L’acqua, il suo controllo, è ormai anche fattore geopolitico. Pensa che in futuro la contesa per l’acqua possa diventare uno degli elementi della instabilità internazionale?
«Lo è stato in tante circostanze e può esserlo ancora. Ma anche in questo caso, prendendo spunto da quanto accaduto in una delle aree più travagliate del mondo, la West Bank, è interessante osservare la capacità che ha avuto Israele di risolvere il problema. Lo Stato ebraico è un grandissimo gestore di risorse idriche: ha creato un sistema di riciclo del 95% delle acque reflue trattate urbane che sono reimmesse in acquiferi profondi usati per l’irrigazione agricola. E ha posto una spasmodica attenzione al controllo di queste irrigazioni, le quali sono fatte con il sistema “goccia a goccia”. Ecco, dovremmo tendere a questo anche noi».
Dovremmo farlo pure se viviamo in aree ricche d’acqua?
«Sicuramente. Quando ho ricevuto lo Stockholm Water Prize ho avuto modo di scambiare qualche battuta con il re di Svezia, il quale sottolineava proprio quanto lei dice: l’assenza del problema di carenza idrica nel suo Paese. Ci sono due ragioni, Maestà, per cui questo non è vero, gli ho risposto: la prima è che si tratta di una prospettiva antropocentrica; la seconda, come ho detto prima, è che le buone fortune non durano in eterno. Oggi la Svezia è piena d’acqua, ma potrebbe non esserlo più in futuro. Ai miei studenti racconto sempre che quel remoto angolo del Sahel in cui non piove da oltre 40 anni, il pozzo più arido del mondo, osservato dal satellite mostra tracce di paleoalvei, di fiumi meravigliosi che una volta lo solcavano. La buona fortuna, mi ripeto, non dura in eterno».
L’acqua può essere talvolta fattore distruttivo. In Ticino e nei Grigioni, pochi mesi fa, la furia delle acque ha causato gravi danni e anche vittime. Da un punto di vista culturale, secondo lei, tutto questo modifica il nostro atteggiamento verso l’acqua? Verso quali riflessioni dovrebbe spingerci?
«Torniamo al punto di partenza, alla questione del cambiamento climatico. Nella storia dell’umanità, le acque salvifiche e le acque distruttrici sono sempre coesistite. Ma oggi dobbiamo contrastare fenomeni che noi stessi abbiamo contribuito a creare. Prendiamo le cosiddette bombe d’acqua: la legge di Clausius-Clapeyron afferma che per ogni grado di aumento della temperatura, la concentrazione di vapore acqueo aumenta del 7%. Ora, ogni volta che un fronte freddo incrocia un fronte caldo più umido, si scatena l’inferno. Il punto è che questi fronti caldi sono sempre di più. E per colpa nostra. Il problema diventa tragico nei bacini piccoli e medi con determinate caratteristiche morfologiche. Ad esempio, le zone della Romagna colpite in questi giorni. Siccità estreme e piene distruttive sono le facce di una stessa medaglia: la febbre del pianeta».
Mercoledì prossimo, a Mendrisio, lei parlerà di «governo dell’acqua nel mondo che cambia». Qual è il messaggio che intende lanciare?
«È un messaggio semplice: nel mondo che cambia, il governo dell’acqua è particolarmente delicato. C’è una citazione che qualcuno attribuisce a un poeta e filosofo francese, qualcun altro a un giocatore americano di baseball. Dice: “il futuro non è più quello di una volta”. Significa che non possiamo immaginare il domani guardando al già visto. È il punto decisivo: siamo in un territorio non mappato. La rapidità delle mutazioni è tale che non possiamo nemmeno usare ciò che abbiamo imparato in passato. Di certo c’è che le conseguenze del cambiamento climatico sono enormi e potenzialmente catastrofiche».
Non teme di essere giudicato troppo pessimista?
«Non credo. Di sicuro, non sono prometeico, non dico che troveremo comunque una soluzione a tutto. La vera ragione di preoccupazione per cui continuo a dire “Greta ha ragione”, è che non riusciamo a rendere virale l’urgenza della questione clima. Se continuiamo così, tra 100 anni il livello del mare si alzerà di un metro. La mia città, Venezia, non ci sarà. Le aree costiere di tutto il mondo saranno stravolte. Ci sono ancora troppi mercanti di dubbi in giro. Che cosa deve succedere perché la gente se ne renda conto?».