Arte

Dove fiorisce la luna: le sculture di Pascal Murer ad Ascona

Nel silenzio del Castello San Materno, l’artista ticinese d’adozione intreccia materia e luce in opere che respirano, dialogando con il fratello Simon in un percorso dedicato alla bellezza che nasce dall’ascolto
©Samuel Golay
Mattia Sacchi
12.10.2025 19:02

Un fiore che sboccia di notte, per portare luce nel buio. È da questa immagine che prende avvio Moonflower, la mostra che il Museo Castello San Materno di Ascona dedica a Pascal Murer (27 settembre–28 dicembre 2025, con riapertura 5 marzo–12 aprile 2026). Sculture e disegni nati «in ascolto» della natura dialogano con la videoinstallazione del fratello, l’ipnoterapeuta Simon Noël Murer: The Three Faces of Hecate, un percorso nelle fasi della luna e della coscienza. L’artista, ticinese d’adozione, ci accoglie nel suo atelier in Città Vecchia a Locarno, un universo fatto di luce, respiro e legno. Tutto, nel suo linguaggio, sembra muoversi verso una stessa direzione: la leggerezza.

©Samuel Golay
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Moonflower nasce di notte.
Sì, e forse anche da un certo silenzio. Io lavoro seguendo il ritmo delle cose naturali, Simon invece viene dal mondo della scienza, della terapia, della ricerca sull’ipnosi. Il suo sguardo è analitico, il mio più intuitivo, ma entrambi partiamo dall’ascolto. Moonflower mette in dialogo questi due mondi senza confonderli: la precisione del metodo e l’abbandono dell’immaginazione.

Mara Folini parla di opere «germinative». Che cosa germina nel tuo lavoro?
Una forma che nasce da dentro, come una pianta che cerca la luce. Io non impongo: accompagno. Le mie sculture crescono lentamente, si lasciano attraversare dall’aria. Mi interessa la forza vitale, la linfa invisibile che tiene insieme il tutto. Ogni forma dovrebbe essere un piccolo organismo che respira.

©Samuel Golay
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Luce, aria, trasparenza: sono parole centrali nella tua ricerca.
La luce è il mio strumento più segreto. Lavoro con materiali solidi – legno, bronzo – ma cerco sempre il punto in cui la materia diventa permeabile. Quando tolgo materia, quando svuoto, lascio entrare la luce. È come suonare una pausa in musica: quello che non si vede è ciò che dà ritmo al tutto.

Il film di Simon su Ecate sembra amplificare questa idea di soglia.
Ecate rappresenta i passaggi, le trasformazioni. Simon ha tradotto in immagini il suo lavoro sull’ipnosi: stati di coscienza che mutano, come fasi lunari. Nel film il corpo si trasforma, si moltiplica, si dissolve. Le mie sculture, invece, trattengono la forma, ma dentro c’è lo stesso movimento interiore. È un dialogo tra immobilità e metamorfosi.

©Samuel Golay
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La sala ovale del Castello è quasi una cassa armonica.
Lì le sculture respirano insieme allo spazio. La memoria della danza e della musica che quell’ambiente conserva è perfetta per me. Penso alla scultura come a un corpo che si accorda all’aria. Non invade, ma vibra. E se capita che qualcuno senta l’odore del legno, allora vuol dire che l’opera è viva.

Perché esporre disegni e incisioni accanto alle sculture?
Perché tutto nasce dal disegno. È la mia grammatica di base. La puntasecca mi ha insegnato la precisione del gesto, il tempo dell’attesa. I frottage, invece, sono un ritorno: prelevo le superfici delle mie sculture e le riporto su carta. Così la scultura diventa disegno, e il disegno diventa memoria della scultura. È un dialogo che non si chiude mai.

©Samuel Golay
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La scultura è anche lavoro fisico. Dov’è la poesia, dentro la fatica?
Nel ritmo della sottrazione. All’inizio ho sessanta chili di legno, alla fine ne restano otto. Ogni colpo toglie e libera, come se il legno sapesse già dove vuole andare. Anche la motosega, che sembra brutale, diventa un pennello rumoroso. È una danza fra violenza e grazia.

Dopo gli anni a Vienna e Berlino, perché il Ticino?
Forse per la luce. A Locarno ho trovato un clima umano e naturale che unisce nord e sud: il rigore dell’uno e la morbidezza dell’altro. Sono arrivato nel 2001, per un periodo di prova, e non me ne sono più andato. Qui ho capito che si può vivere d’arte se si accetta il ritmo lento della materia. E poi c’è Nino, mia moglie: anche lei artista, con cui condivido da sempre questo percorso. Lavoriamo su strade diverse, ma la nostra conversazione non si interrompe mai: ci confrontiamo, ci ascoltiamo, a volte basta un gesto per capirsi. È un dialogo silenzioso che mi accompagna ogni giorno.

©Samuel Golay
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Che cosa ti è rimasto dei tuoi maestri?
Da Joannis Avramidis ho imparato la disciplina della figura e il rispetto per la forma. Da Michelangelo Pistoletto la libertà del pensiero, il coraggio di non separare arte e vita. Ma alla fine un maestro ti insegna a trovare la tua voce, non la sua.

Parli spesso di «cura» e «armonia». Parole grandi.
Ma molto pratiche. Cura è come posi un’opera, come la tocchi. Armonia non è perfezione, ma equilibrio fra pieni e vuoti, luce e ombra. La pace non è un traguardo, è un atteggiamento mentre lavori.

Il pubblico in tutto questo che ruolo ha?
È parte del processo. Finché qualcuno non guarda, l’opera resta sospesa. Io cerco di creare forme che invitino a fermarsi. La bellezza, se esiste, nasce nel tempo che dedichi a guardare. Per questo dico sempre che bisogna vedere le opere dal vivo: in foto non senti la vibrazione dell’aria.

Il legno sembra avere per te un’anima.
Sì, perché è memoria del tempo. Ogni venatura è una storia di sole e d’acqua. Quando lo scolpisci senti che risponde, che ha un ritmo suo. Il profumo che resta in atelier è come una preghiera laica: ti ricorda che tutto viene dalla terra.

©Samuel Golay
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Il 14 novembre ci sarà anche una performance con danza e ipnosi. Cosa accadrà?
Sarà un esperimento di presenza. Una danzatrice porterà il corpo vivo tra le sculture, Simon introdurrà una parte ipnotica, quasi una guida alla percezione. Non è spettacolo: è un invito a vivere il museo come un organismo che respira. Anche il pubblico, con il suo silenzio o il suo respiro, farà parte dell’opera.

Cosa vuol dire essere scultore oggi, in un mondo saturo d’immagini?
Andare più piano. Fare meno rumore. Rispettare il tempo delle cose. Gli alberi sono maestri in questo: crescono verso la luce, ma senza fretta. Se il mio lavoro riuscisse anche solo un po’ a restituire quel ritmo naturale, sarebbe già molto.

E dopo Moonflower?
Vorrei festeggiare i venticinque anni a Locarno con un’apertura del mio atelier. Mostrare non solo le opere finite ma anche le tracce, gli scarti, il processo. Lavorare accanto a Nino mi ricorda ogni giorno che l’arte è dialogo, e che la bellezza può nascere anche nel disaccordo, in quell’equilibrio fragile che si ritrova solo vivendo insieme. Continuare a incidere, a disegnare, a scolpire: ogni giorno un passo in più verso la luce.

Se dovessi racchiudere tutto in un’immagine?
Un fiore che si apre di notte. Silenzioso, ma vivo. Per me l’arte è questo: un gesto che nasce nell’oscurità e porta una piccola luce. E quella luce, come l’amore o la scultura, non è mai solo mia: è qualcosa che si condivide, che passa di mano in mano, come un respiro.

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