L'intervista

«Il nostro padiglione è una finzione che potrebbe riscrivere la storia»

A colloquio con l'architetta Elena Chiavi del collettivo Annexe che, insieme all'artista Axelle Stiefel, ha realizzato il padiglione svizzero alla Biennale di architettura di Venezia
Stefania Briccola
24.08.2025 06:00

Ci sono due frasi che appaiono come le colonne d’Ercole del padiglione svizzero, alla XIX Biennale di architettura di Venezia, firmato da Annexe con Axelle Stiefel. La prima, in tedesco, dà il titolo all’installazione: «Endgültige Form wird von der Architektin am Bau bestimmt» ovvero «La forma finale è determinata dall’architetta sul cantiere». È tratta da un appunto di Lisbeth Sachs(1914-2002), pioniera della professione, sul progetto della Kunsthalle temporanea per la mostra svizzera del lavoro femminile (Saffa) a Zurigo nel 1958. La seconda frase, che fa da sottotitolo, recita: «E se fosse stata Lisbeth Sachs, invece di Bruno Giacometti, a disegnare il padiglione svizzero?».

Si parte da qui per capire l’affascinante incontro, tra lo storico padiglione nazionale ai Giardini della Biennale e l’effimera Kunsthalle della Sachs, proposto dal collettivo di curatrici, formato dalle architette del gruppo Annexe; Elena Chiavi, Kathrin Füglister, Amy Perkins e Myriam Uzor, alle quali si aggiunge l’artista Axelle Stiefel. Un progetto aperto, flessibile, temporaneo e carico di attese che invita ogni visitatore a riflettere su uno spazio giocoso. Un omaggio alla figura di Lisbeth Sachs, tra le  prime architette svizzere indipendenti, e alla potenza lirica della voce nei dialoghi che diventano un canto corale dei vari attori del cantiere, il luogo della costruzione. Un inno alla collaborazione e a “l’altra metà del cielo” anche in architettura. Per Lisbeth Sachs, la costruzione era un processo che iniziava dall'artigianato, passava dalla scelta dei materiali per finire con l'appropriazione degli spazi da parte delle persone. La sua architettura si declinava tra il genius loci, la cura per l’ambiente e l’attenzione alla società. La sua concezione interdisciplinare è ancora attuale e diventa fonte di ispirazione. Se fosse un film, questo padiglione s’intitolerebbe «Bruno e Lisbeth, un incontro fra due Kunsthallen» per raccontare l’assenza storica delle architette nei Giardini della Biennale e fare memoria di un lavoro magistrale e sconosciuto. Del progetto selezionato dalla Fondazione Pro Helvetia, tramite concorso, abbiamo parlato con  Elena Chiavi(1989, Châtel-St-Denis), architetta del gruppo Annexe che opera tra Losanna, Zurigo e il mondo.

Elena Chiavi, come avete scelto il titolo del padiglione svizzero firmato da Annexe?
«Il titolo “Endgültige Form wird von der Architektin am Bau bestimmt” è particolare. Abbiamo trovato questa frase cercando tra i vari documenti del gta Archiv all’Eth di Zurigo e l’abbiamo tradotta in italiano con “La forma finale è determinata dall’architetta sul cantiere”. È stata scritta a mano da Lisbeth Sachs(1914-2002) su un disegno di cantiere, in scala 1:20,  della Kunsthalle per la mostra svizzera del lavoro femminile(Saffa) di Zurigo(1958). Quello che ci ha colpito di questa annotazione dell’architetta è il fatto di volere essere sul cantiere e di vivere il nostro lavoro non solo nell’ambito della progettazione, ma anche nella fase della costruzione».

Lisbeth Sachs era un’architetta sui generis. Che cosa vi sorprende della sua figura?
«A quei tempi non era usuale per una donna stare sul cantiere ed è lì che è iniziata la nostra ispirazione per Lisbeth Sachs. Lei si è dichiarata come architetto al femminile e negli anni Cinquanta in Svizzera era qualcosa di straordinario, ma era anche una dichiarazione di autonomia che dimostrava il suo ruolo di primo piano. Il titolo è stato una fonte d’ispirazione lungo tutto il processo creativo del padiglione proposto. In genere in architettura uno cerca una forma definitiva, noi invece volevamo decidere sul posto e lasciare questo progetto incompiuto e aperto, flessibile e adattabile. Il padiglione è il risultato di un dialogo tra noi, architette, e le figure che ci hanno circondate e aiutate nelle varie fasi». 

Quale pratica ha scelto il vostro collettivo di curatrici?
«Il team curatoriale per il progetto del padiglione svizzero è composto dal gruppo Annexe che vede protagoniste quattro architette: la sottoscritta, (Elena Chiavi ndr), Kathrin Füglister, Amy Perkins e Myriam Uzor, al quale si aggiunge un’artista. Si tratta di Axelle Stiefel che si definisce “embedded artist”. Con Annexe abbiamo iniziato a lavorare insieme già dal 2021 con un approccio multidisciplinare e basato sulla libertà che la pratica può offrire. Non facciamo attenzione solo all’ideazione del progetto, ma anche al lavoro di gruppo e in situ, e alla ricerca storica negli archivi. Per il padiglione svizzero siamo state affiancate dall’artista Axelle Stiefel che ha seguito tutte fasi del progetto per poi trasmetterle al pubblico. La pratica scelta è anche legata a una tendenza emergente in Svizzera che vede i giovani sperimentare insieme in modi differenti. Come architette ci inseriamo in diversi gruppi e associazioni che si chiedono come costruire un mondo diverso o più legato, a livello sociale, allo spazio pubblico, in un ambito ancora dominata dagli uomini dove le donne sono una minoranza poco rappresentata. Con Axelle Stiefel abbiamo voluto lavorare sulla finzione per aprire nuove prospettive e avere uno sguardo altro sulla ricerca in architettura. La nostra indagine su Lisbeth Sachs mette in luce delle storie sconosciute e nascoste, un aspetto sottolineato anche con l’installazione sonora».

Come si delinea il vostro padiglione che esce dall’incontro tra due architetture, quella permanente di Bruno Giacometti e quella effimera di Lisbeth Sachs?
«Parlando di questo incontro definiamo il padiglione svizzero come una sovrapposizione di due architetture che ci permette di collegare il passato e il presente. L’installazione, realizzata nel padiglione esistente di Bruno Giacometti ai giardini dell’Arsenale di Venezia, vuole creare un nuovo spazio che mette in scena un dialogo attraverso questa finzione. È lì che all’inizio ci siamo chiesti “E se fosse stata Lisbeth Sachs invece di Bruno Giacometti a progettare il padiglione svizzero?”. Questa idea dell’incontro è molto forte. Partiamo dalla storia e dalla realtà perché prendiamo il padiglione di Lisbeth Sachs, lo reinterpretiamo e lo inseriamo in quello di Bruno Giacometti. Il bello è che tutte e due le architetture in questione erano delle sale espositive per l’arte e quindi instaurano una sorta di dialogo sulla costruzione di una Kunsthalle negli anni Cinquanta. La sovrapposizione ci dà modo di evocare una memoria spaziale, che è fisica e non solo virtuale, ma anche di unire architettura e performance perché lo spazio di Lisbeth Sachs è molto dinamico e dà nuova vita a questo lavoro di donne pioniere nel design. C’è un aspetto relazionale con l’ambiente che circonda il padiglione svizzero esistente perché quando abbiamo iniziato il progetto ci siamo rese  conto che nessun padiglione nazionale ai  Giardini della Biennale di Venezia era stato progettato da una donna. Era importante costruire un’architettura per dare spazio e vita a un passato che denota una mancanza».

Avete voluto colmare un vuoto o riscrivere un po’ la storia?
«Diciamo che il nostro padiglione è una finzione che potrebbe riscrivere la storia».

L’installazione sonora che ruolo ha nel vostro progetto del padiglione svizzero?
«Il ruolo del suono si lega alla pratica a cui ci ha portato Axelle Stiefel. L’installazione invita i visitatori ad ascoltare e a prendere coscienza del paesaggio sonoro del padiglione. Durante tutto il percorso del progetto ogni curatrice aveva un dispositivo di registrazione che ha usato sul campo. Nel corso di una residenza, che si è svolta al Furka Pass nel luglio dell’anno scorso con diversi artisti, abbiamo iniziato la pratica del field recordings che poi è continuata negli incontri a Losanna, a Zurigo, a Venezia, etc.. Registrare suoni e discussioni fa parte di un processo da mostrare al pubblico.  Abbiamo fatto delle sessioni di ascolto dove tutti insieme abbiamo  rivisitato la registrazione che è una collezione di testimonianze del processo di costruzione e di ideazione. Questa è una cosa abbastanza rara. È come un archivio vivo che diventa parte dell’installazione».

Come si identifica la traccia sonora con il vostro lavoro?
«L’installazione sonora è qualcosa di unico, è un progetto artistico all’interno dello stesso progetto architettonico che fa memoria dei momenti clou del processo creativo e che è stato messo a punto con attenzione. Questo archivio comune di suoni e voci evidenzia anche la nostra pratica di gruppo e del collettivo. È proprio come un canto corale e non è mai una singola voce».

Come mai lei e le altre architette curatrici avete scelto di lavorare con un collettivo e non da sole?
«Siamo tutte e quattro architette con un percorso e un profilo abbastanza simile. Ci siamo conosciute anche insegnando all’Eth di Zurigo. Ognuna di noi ha quasi sempre lavorato anche attraverso workshop e scambi con associazioni e gruppi di studenti per fare emergere vari talenti, per creare e crescere insieme. Diciamo che questo è un tema che ci accomuna e sentiamo molto perché alla fine il risultato è un concorso di tante voci. Il nostro lavoro è collettivo e inclusivo. È una realtà rassicurante e ce ne siamo rese conto anche quando eravamo sul cantiere. Le donne nel mondo dell’edilizia non hanno vita facile e stare insieme, essere ascoltate e supportate è molto bello. Siamo giovani progettiste e a volte ci sentiamo fragili e insicure, condividere il nostro lavoro è un atto di generosità reciproca».

Il padiglione svizzero, pur essendo indipendente, come incrocia il tema della biennale di Carlo Ratti dal titolo Intelligens. Natural. Artificial. Collective.?
«Il padiglione svizzero è gestito dalla fondazione Pro Helvetia che invita con un bando di concorso nazionale gli architetti a partecipare con una proposta per l’esposizione che si terrà l’anno dopo. Il nostro percorso non è stato legato direttamente al tema della biennale. I padiglioni nazionali hanno questa libertà di proporre qualcosa di nuovo. Riguardo al tema di Carlo Ratti, che a noi è sembrato molto ampio e tecnocratico, se pensiamo all’intelligenza collettiva attraverso la nostra pratica volevamo creare qualcosa che fosse riferito al presente invece di pensare a come sarà il futuro. Anche sul legame del nostro lavoro con la storia, tramite la ricerca d’archivio, sappiamo che non possiamo riscrivere il passato e per noi la domanda è più su dove siamo ora. Il contributo del padiglione svizzero è nel fare qualcosa di sperimentale dove ci sia questo gioco di finzione e nel vedere come il presente possa essere pensato in modo diverso».

Il vostro padiglione diventa un laboratorio di sperimentazione rivolto al presente?
«Esatto, però noi portiamo l’immaginazione con la frase “E se fosse stata Lisbeth Sachs, invece di Bruno Giacometti, a progettare il padiglione svizzero ….” per dare una nuova prospettiva a quello che c’è. Pensiamo a come possiamo essere in contatto l’uno con l’altro proprio nell’ascolto reciproco e a come creare insieme, avendo costruito il padiglione ed essendo state sul campo per tre mesi a lavorare. Questo rende la nostra proposta viva e credibile».

Quali iniziative sono previste nei prossimi mesi per il padiglione svizzero?
«Dall’inizio dell’ideazione del nostro progetto volevamo realizzare un evento in cui accogliere amici e sostenitori. Stiamo organizzando la “Lisbeth Sachs convention”, prevista il 10 e l’11 ottobre, a Venezia, dove stiamo lavorando a una serie di workshop e performance nello spazio del padiglione, ma anche nella città della Laguna. Vorremmo un po’ condividere anche il lavoro dell’architetta Lisbeth Sachs e per parlare di lei ci sarà il lancio della traduzione in inglese della monografia scritta da Rahel Hartmann Schweizer. L’evento sarà legato ai Pavilion Days con una serie di visite guidate ai padiglioni nazionali della biennale di architettura di Venezia».