L'intervista

Jacqueline Burckhardt: «La mia carriera? Come giocare con i sassi sull'acqua»

A tu per tu con la restauratrice, storica dell’arte, docente, curatrice, autrice, editrice e organizzatrice di mostre basilese
Stefania Briccola
16.03.2024 18:00

«Gesamtkunstwerk è una delle parole più importati del mio vocabolario, qualcosa che mi interessa moltissimo». Lo dice Jacqueline Burckhardt che ha fatto del suo lavoro una vera «opera d’arte totale» con diverse competenze. Non a caso il suo autorevole punto di vista è quello di restauratrice, storica dell’arte, docente, curatrice, autrice, editrice e organizzatrice di mostre. Questa signora con la cultura rinascimentale nel cuore è nata a Basilea nel 1947 e si è formata tra l’Istituto di Restauro di Roma e l’Università di Zurigo, dove vive. A Jacqueline Burckhardt l’Ufficio federale della cultura ha conferito il Gran Premio Svizzero d’arte Prix Meret Oppenheim 2024. Lo stesso riconoscimento, quest’anno, è andato a Marianne Burkhalter e Christian Sumi e a Valérie Favre. Al Corriere del Ticino, la storica dell’arte racconta le tappe più significative della sua carriera: dalla scoperta di Laurie Anderson, con l’inizio del programma di performance al Kunsthaus di Zurigo, alla fondazione della rivista Parkette, dalle opere site-specific curate al Novartis Campus a Basilea alle vetrate di Sigmar Polke alla chiesa di Grossmünster a Zurigo. È uscito in questi giorni nella traduzione inglese il libro strutturato a mo’ di pièce La mia commedia dell’arte, che si arricchisce di nuovi interessanti capitoli.

Jacqueline Burckhardt, la sua figura comprende varie competenze professionali. C’è un fil rouge che unisce queste sue varie attività nell’ambito dell’arte?
«Forse è l’interdipendenza delle mie varie competenze. L’opera d’arte ha bisogno della cura della restauratrice, poi per andare più a fondo c’è il lavoro del teorico, infine ci si dedica a promuovere il fare artistico nell’ambito di apposite commissioni. Quando ho iniziato la mia formazione all’Istituto Centrale del Restauro a Roma, dove c’erano storici, archeologi, scienziati e giuristi, ho capito quanto l’opera d’arte necessiti di un insieme di competenze».

Lei è stata anche editrice, insieme a Bice Curiger, della rivista Parkett. Come vede questa esperienza?
«Poter fare questa rivista con un gruppo di amici che avevano lo stesso interesse per l’arte e gli artisti è stata una grande opportunità e un’eccitazione continua durata 33 anni, dal 1984 al 2017. All’epoca il mondo dell’arte era più piccolo e più piatto di oggi e ci siamo concentrati soprattutto sull’Europa, gli Stati Uniti e l’America del Sud che rappresentavano i nostri campi di interesse e corrispondevano alle lingue che parlavamo. Oggigiorno non potremmo più limitarci solo all’Occidente».

Può dare un‘idea dell’atmosfera che si respirava nella redazione di Parkett tra Zurigo e New York?
«Il team editoriale di Parkett ha sempre lavorato a stretto contatto con artisti e autori internazionali. Abbiamo discusso con loro il carattere di ogni volume della rivista. Volevamo andare a fondo alle cose, fornire molto più che semplici informazioni, offrire riflessioni da punti di vista diversi. Già prima della fondazione di Parkett, Bice Curiger, che in seguito divenne caporedattrice di Parkett, e io eravamo in stretto contatto con artisti come Enzo Cucchi, Sigmar Polke e Meret Oppenheim. Bice stava scrivendo la prima monografia su Meret Oppenheim e all'epoca parlammo molto con lei di come teorizzare una nuova rivista d'arte».

Parkett tentava di cogliere lo Zeitgeist?
«Sì, Parkett era un tentativo di cogliere lo spirito del tempo. Avevamo concepito la nostra rivista come una Kunsthalle su carta».

Parkett era quasi un’opera d’arte totale?
«Gesamtkunstwerk è una delle parole importati del mio vocabolario, qualcosa che a me interessa moltissimo. Anche per questo ho fatto tante cose diverse perché so che sono necessarie perché l’arte possa nascere, essere vista e considerata».

Abbiamo parlato di artisti svizzeri come Fischli &Weiss, Pipilotti Rist, Sylvie Fleury, Roman Signer e Markus Raetz quando non erano ancora noti all’estero

Con Parkett avete dato visibilità internazionale alla scena artistica svizzera che non era molto conosciuta. Quali artisti con il suo lavoro ha portato all’attenzione del pubblico?
«Diciamo che forse non abbiamo neanche tanto pensato al pubblico. C’era piuttosto l’entusiasmo per certi fenomeni artistici che volevamo far conoscere visto che la rivista Parkett era distribuita a livello internazionale, scritta in inglese e in tedesco, con un ufficio a New York e uno a Zurigo. Abbiamo parlato di artisti svizzeri come Fischli &Weiss, Pipilotti Rist, Sylvie Fleury, Roman Signer e Markus Raetz quando non erano ancora noti all’estero. Ho curato con Bice Curiger una mostra di Meret Oppenheim al Guggenheim Museum di New York e quando l’abbiamo allestita ci siamo rese conto che pochi avevano idea di chi fosse questa protagonista del Surrealismo; conoscevano la sua famosa Tazza di pelliccia, ma non sapevano se era una donna o un uomo, viva o defunta».

Come ha scoperto Laurie Anderson che all’inizio degli anni Ottanta ha portato al Kunsthaus di Zurigo?
«Siamo sempre in tanti a scoprire un talento perché uno vede una cosa e lo dice all’altro e così si capisce che c’è sempre qualcuno che forse l’ha vista prima. Laurie Anderson nel 1980 fece una performance alla Biennale di Venezia nella chiesa di San Lorenzo che vidi: ne fui entusiasta. Così ho subito portato l’artista newyorkese al Kunsthaus di Zurigo dove a vedere la sua performance c’erano diciassette persone al massimo, tra cui la mia famiglia e i miei amici. Dopo un anno l’ho invitata di nuovo quando era già uscito nel frattempo il suo famoso singolo di debutto O Superman e allora il Kunsthaus era pieno. Dopo abbiamo organizzato per altre due volte le performance di Laurie Anderson nello stesso luogo, ma poi non si potevano più fare perché il pubblico era diventato troppo numeroso e il Kunsthaus troppo piccolo. Ci sono figure di cui si capisce subito la profondità e il genio e il piacere di poterle presentare al pubblico è enorme. La conoscenza di Laurie Anderson per me è stata un’esperienza essenziale, siamo rimaste amiche fino adesso e ci sentiamo ancora. Ho imparato molto da lei e la sua frequentazione è un arricchimento continuo».

Che impressione le ha fatto insegnare storia dell’arte agli studenti dell’Accademia di architettura di Mendrisio?
«Il bello è che mi sono sempre sentita vicina agli architetti perché hanno grande senso pratico e interessi interdisciplinari. Mi è capitato di insegnare a studenti di storia dell’arte che erano molto meno vivaci di loro. All’Accademia di architettura a Mendrisio c’erano molti studenti stranieri fra cui italiani e alcuni arrivati con il programma Erasmus. Mi sono sembrati interlocutori colti con una base di conoscenza umanistica e una certa apertura mentale».

Quale è stato il suo contributo al Novartis Campus a Basilea, voluto da Daniel Vasella, dove è arrivata dopo Harald Szeemann?
«All’epoca si era deciso di trasformare la zona di produzione della ex Sandoz a Basilea in un campus di ricerca e amministrazione. La fusione delle industrie farmaceutiche Ciba-Geigy e Sandoz nella Novartis ha comportato nuove costruzioni progettate da celebri architetti fra cui dei Pritzker Prize e l’intervento di paesaggisti come Günther Vogt su un masterplan urbanistico di Vittorio Magnago Lampugnani, un architetto italiano di altissima cultura. In questo contesto si volevano inserire delle opere d’arte site-specific. Nel terreno sono stati rinvenuti anche dei reperti celtici e si evidenziavano delle stratificazioni interessantissime della storia di Basilea. Ho riflettuto molto su quali artisti potessero essere adatti a dialogare con la storia, con le nuove architetture e con il paesaggio. Laurie Anderson ha creato un’installazione sonora in un piccolo parco davanti a un edificio decostruttivista di Frank Gehry. Le sorgenti di suoni sono nascoste negli alberi e i suoni si notano appena. Ma tutto a un tratto si avverte un cambiamento nell’atmosfera quasi a livello sottocutaneo».

  Di recente ho lavorato molto sul libro La mia commedia dell’arte scritto e pubblicato nel 2022, che ora esce anche nella traduzione inglese con l’aggiunta di alcuni miei articoli  

A cosa sta lavorando?
«Di recente ho lavorato molto sul libro La mia commedia dell’arte scritto e pubblicato nel 2022, che ora esce anche nella traduzione inglese con l’aggiunta di alcuni miei articoli. Nel volume ci sono una lunghissima conversazione con Juri Steiner, direttore del Museo d’arte di Losanna e un intermezzo con i lavori di artisti come Pipilotti Rist, Katharina Fritsch e Laurie Anderson e di altre persone che sono al centro del mio universo. Poi ho iniziato un libro su Giulio Romano con il mio mentore Kurt W. Forster, professore di storia dell’arte e dell’architettura, scomparso lo scorso gennaio. È stato direttore-fondatore del Getty Center for the History of the Arts and Humanities poi diventato Getty Research Institute. Il libro è basato sulle conversazioni tra noi due a mo’ di pièce teatrale».

Quali altri impegni editoriali la attendono?
«Sto scrivendo di Nina von Albertini, ingegnere agronomo che negli anni Ottanta ha realizzato dei gioielli d’argento influenzati dalla cultura Punk e New Wave, mentre oggi lavora sul paesaggio in montagna. È interessante vedere come la sua ricerca sia passata dal corpo umano a quello della natura».

Come vede a distanza di anni le vetrate di Sigmar Polke alla chiesa di Grossmünster di Zurigo?
«Quello forse è stato il lavoro site-specific più intenso che ho curato con un artista. Questi dodici vetrate realizzate in tre anni in parte con l’agata e la tormalina sono il suo ultimo lavoro e testamento spirituale. Lavorando con Sigmar Polke ho sperimentato la sua enorme capacità artistica e le sue dimensioni intellettuali che hanno anche tanto colpito la pastora della chiesa. Polke aveva un profondo interesse per le scienze naturali, per le pietre e i loro valori simbolici».

La sua carriera è ricca di esperienze profonde che restituiscono un senso di levità. Come riesce a renderla?
«Questa l’ho imparata dagli italiani soprattutto leggendo Il Cortegiano di Baldassare Castiglione che parla del concetto della sprezzatura. Lui ha inventato questa parola che corrisponde alla disciplina del fare le cose con leggerezza nascondendo la fatica. Ciò rende il comunicare e il vivere insieme più prezioso e piacevole. Kurt Forster ha definito la sprezzatura in un modo bellissimo ricordando che è come quando si gioca con i sassi che saltano sull’acqua ovvero quando uno riesce a far danzare insieme due elementi per natura opposti come l’acqua e la pietra».