Arturo Benedetti Michelangeli e la ricerca della perfezione

Il 2020 è un anno legato alla figura di Arturo Benedetti Michelangeli, pianista italiano tra i maggiori interpreti dello strumento del XX secolo e che in virtù dell’unicità del suo tocco, delle iridescenze timbriche e della sua raffinatezza interpretativa, è da molti considerato tra i più grandi di sempre. Di lui infatti si è celebrato a gennaio il centenario della nascita (avvenuta a Brescia il 5 gennaio 1920) e tra poco più di un mese − il 12 giugno − si ricorderà il XXV della scomparsa, avvenuta nel 1995 in quel Canton Ticino in cui dagli anni Sessanta si era auto esiliato e dove, a Pura, riposano le sue spoglie. Tra i molti omaggi tributati a una delle personalità più complesse e affascinanti del mondo della musica, c’è quella di Roberto Cotroneo, che ha da poco pubblicato un libro dedicato a ABM (così viene ricordato Michelangeli) dal titolo Il demone della perfezione (ed. Neri Pozza).
Un libro che non rappresenta il suo primo incontro con questa straordinaria figura.
«È vero. Già nel 1995 nel mio romanzo Presto con fuoco parlavo di un pianista che somigliava a lui. L’anno seguente scrissi poi un testo per un libro su Michelangeli edito da Skira - Il grembo del suono. Inoltre il mio amore per il pianoforte mi ha sempre portato a guardare ad ABM come a un preciso punto di riferimento. Quest’anno, complice appunto il duplice anniversario e il fatto che di lui negli ultimi tempi si è parlato sempre meno, ho deciso di ritornare sulla sua figura con un testo che ne traccia i contorni».

Un testo che però va oltre la semplice biografia trasformandosi a tratti in una critica alla musica d’oggi. In merito alla quale la sua visione mi sembra collimi con quella di ABM: ovvero che la musica vera è quella suonata e ascoltata dal vivo e non quella dei dischi.
«Ovviamente amo le incisioni e come tutti quelli della mia generazione colleziono dischi nei confronti dei quali, in molti casi, ho una profonda devozione. Però è evidente che se nel rock e nel pop il disco è un elemento primario (molti lavori nascono infatti in sala di registrazione e solo dopo diventano un qualcosa da eseguire dal vivo, a volte meglio a volte peggio) nella musica classica le cose sono diverse e un’incisione non è minimamente paragonabile a un concerto. Capisco dunque perché ABM abbia passato la vita a cercare di non registrare. Per fortuna nostra non c’è riuscito del tutto. Ha però inciso solo cose che ha suonato in concerto, ma ci sono anche cose che ha suonato e non ha voluto incidere così come ci sono brani che ha eseguito solo in privato e mai in pubblico. Un personaggio anomalo: la dimostrazione è riscontrabile anche nella ragione per cui lasciò l’Italia trasferendosi in Ticino».

Ovvero?
«Aveva fondato una casa discografica a Bologna per la quale incidere solo ciò che voleva senza essere ostaggio dei produttori. Tuttavia a causa della sua ansia di perfezionismo, registrò così poche cose che la casa discografica fallì, i suoi soci gli fecero causa pignorando i suoi beni allorché lui, indignato, se ne andò dall’Italia. Alla fine, insomma, è stato vittima di questa sua ossessione della perfezione. Mi immagino dunque come potrebbe ritrovarsi nel panorama musicale di oggi in cui, se da un lato le registrazioni discografiche possono essere di qualità altissima, la qualità degli ascolti (e mi riferisco agli Mp3 e agli altri formati che utilizziamo per l’ascolto quotidiano) non è paragonabile non solo alle esecuzioni nelle sale da concerto ma neppure ai vecchi vinili».
Non trova invece che la perfezione tecnica raggiunta dalla registrazione digitale avrebbe potuto esaltare il maniacale perfezionismo di ABM?
«No perché, contrariamente a tutti i pianisti di oggi che se una nota non suona bene la rifanno e la rimontano, aveva il mito dell’interpretazione perfetta. Lui incideva i pezzi senza tagli e senza ritocchi. Sono storici i suoi contrasti con i tecnici del suono della Deutsche Grammophon perché non voleva che si toccasse alcunché della registrazione. Lui aveva un’ansia di perfezionismo finalizzata al fatto che ogni sua incisione doveva essere perfetta come si trattasse di un concerto, senza alcun ritocco posteriore».


Un altro aspetto che sottolinea riguardo al Demone della perfezione di ABM è il suo tentativo di raggiungerla attraverso la sottrazione. Ovvero una progressiva riduzione del suo repertorio così da concentrarsi solo su un numero limitato di composizioni.
«È un retaggio della sua formazione.Non dimentichiamo che lui nasce a Brescia nel 1920 e che il suo primo maestro è Paolo Chimeri, che aveva suonato addirittura per le truppe al ritorno della II Guerra di Indipendenza. Un uomo squisitamente dell’Ottocento talmente bravo che Giuseppe Verdi in persona gli chiede di andare alla Scala. Offerta che però lui declina preferendo rimanere a Brescia nel suo piccolo mondo. Una visione delle cose che ABM ha ereditato facendo di lui un personaggio che, pur vivendo nel XX secolo, è mentalmente ottocentesco. Poi c’è un altro elemento fondamentale. Ossia la sua precisione rispetto a tutti i grandi pianisti della sua epoca, come Vladimir Horowitz, Claudio Arrau, Alfred Cortot o Jan Paderewski. Che erano tutti molto imprecisi. Allora infatti non contava tanto la cristallina perfezione del suono, contava l’anima del pianista, se sbagliavi qualche nota nessuno si scandalizzava. L’arrivo sulla scena di ABM (e dopo di lui di Glenn Gould) cambia completamente la percezione del perfezionismo tecnico. In lui non trovi una nota sbagliata o meno nitida di un’altra: lui infatti possedeva un tecnicismo straordinario (per certi versi ineguagliato) che univa a uno straordinario feeling. Ecco, è questa combinazione di elementi che credo lo portò a ridurre il suo repertorio e a concentrarsi su un numero limitato di composizioni».
Cosa ci resta oggi della sua figura?
«Soprattutto il rigore morale. ABM era infatti un uomo ineccepibile. Inavvicinabile per certi versi ma anche un grande didatta del pianoforte, che ha avuto allievi su allievi dai quali non si faceva pagare. Insegnava gratuitamente. Non solo: quando sapeva che un suo studente aveva delle difficoltà lo aiutava (in un caso a Torino si offrì di pagare le spese mediche di un importante intervento cardiaco a un suo allievo che non aveva i mezzi economici). Lui diceva al suo commercialista: “mi lasci quello che mi serve per vivere, il resto lo dia in beneficenza”. Al punto tale che quando morì cercò di lasciare i suoi diritti in beneficenza. ABM aveva due sole passioni: i canti alpini e la loro armonizzazione (di cui esistono varie incisioni) e le auto veloci, le Ferrari e le Lamborghini. E poi aveva una debolezza per certi modi di fare un po’ controcorrente. In un panorama culturale italiano in cui era di moda essere di sinistra lui era monarchico, era cattolicissimo (amico di Giovanni XXIII e Paolo VI) e aveva dei comportamenti talvolta di una capricciosità infantile tanto che passò parte della sua vita a pagare penali per gli annullamenti improvvisi delle sue esibizioni per i motivi più strani. Manie che però non sminuiscono il fatto che fosse un grande uomo, generoso, abile nel capire e incoraggiare il talento altrui, rigido ma non legato al denaro, narcisista ma solo nel tentativo di raggiungere la valorizzazione massima della partitura che aveva davanti. Tanto da non amare applausi: alla fine dei concerti, infatti, diceva sempre “non state applaudendo me ma il compositore”».
