Milano

«Attila» o il sogno della Rigenerazione

Entusiasmo per l’opera di Verdi che ha inaugurato la stagione scaligera
Foto Brescia e Amisano - Teatro alla Scala
Elsa Airoldi
09.12.2018 16:07

Pur con qualche remora Attila (Venezia,1846) è un successo. Il lavoro giovanile è il primo passo verso le vette raggiunte dal Verdi maturo. Nell’edizione critica Ricordi si impone oggi per strumentazione (il cupo di celli e fagotti che aprono il Prologo calando ombrosi sulle rovine di Aquileia, il colore scuro della campana, la luce degli archi, il miracolo dell’aurora - il sole sorge a Rio Alto -, le ribattute d’arpa con cinque bemolle in chiave nel terzetto atto III).

Per la fondazione di Venezia, Verdi ha certo in mente la Creazione di Haydn. E poi forza, dinamicità agogica, melodismo che alterna ferocia e dolcezze, ritmi, presa drammaturgica. Attila è il primo dei melodrammi cosiddetti risorgimentali. Quanto al significato politico appare evidente come Verdi, che legge Madame de Staël (e in De l’Allemagne si imbatte in Zacharias Werner, fonte letteraria del libretto), conosce Gioberti e frequenta il salotto della contessa Maffei, cammini verso quel Risorgimento che gli intellettuali dell’epoca chiamano Rigenerazione. Rigenerazione di costumi, moralità, spirito nazionale. Un miracolo che il Risorgimento non riesce a compiere e che l’Italia sta ancora aspettando. Come s’è toccato con mano l’altra sera alla Scala, già fervido punto di scambi ideologici, che esplode in una lunga, commovente e incontenibile ovazione all’apparire di Sergio Mattarella visto dai presenti come speranza e punto fermo. Appunto la Rigenerazione.

Quindi Riccardo Chailly riesce ad attaccare l’Inno nazionale italiano. Seguono il prologo e i tre atti. La direzione è forte, appassionata, calibrata, attenta alle sfumature, ai colori e alla scena dove i cantanti se la devono vedere con vocalità estreme. Bastino per tutti l’aria d’entrata di Odabella, in un baleno dal do di petto al si grave, o alla parte di Ezio nel terzetto atto III. Come sempre il direttore si innamora di quello che sta facendo e regolarmente aggiunge qualcosa. Qui le cinque battute scritte dall’amato Rossini come incipit del terzetto atto III e collocate dopo il desolato «È tardi» di Foresto, e l’aria dello stesso nel III atto. Quella scritta per la prima scaligera del ’46 e recuperata da un’incisione con Abbado-e Pavarotti. Mentre il finale «Appien sono vendicati Dio, popoli e re» è battuto a tempo doppio per aumentarne il pathos. Il libretto di Solera distingue i protagonisti. Gli italici sono Odabella e Foresto sopravvissuti alla distruzione di Aquileia e il generale romano Ezio. I barbari Attila e i suoi ungro-finnici. Le tre etnie sono in posizione sin dall’inizio per tessere un gioco dove il vincitore morale è il re degli Unni. Uomo forte, leale, fedele al suo dio e alla parola data. Per noi Flagellum Dei, per la tradizione ungro-finnica un eroe. Ezio è un corrotto, pronto a dividere il potere con il nemico («Avrai tu l’universo, resti l’Italia a me»). Foresto un debole, Odabella, novella Giuditta, la vera protagonista che trafiggerà a freddo Attila responsabile dell’uccisione del padre. Per lei infatti una superba aria d’entrata, per Attila un semplice recitativo. Non manca Leone Magno, il papa che ferma il barbaro con le stesse parole della sua terrorizzante premonizione. Leone potrebbe incarnare certe speranze ottocentesche che affidano la Rigenerazione alla figura del papa liberale Pio IX. Gli spunti affidati alla regia del piemontese Davide Livermore sono molti. Il regista è un patito dell’antistoria e dunque galoppando i secoli ambienta la vicenda tra le due guerre mondiali. La realizzazione tuttavia non è molto dissimile da quella adottata tempo fa per il Tamerlano di Händel collocato nel mezzo della rivoluzione d’ottobre. Il Leitmotiv è un viavai di armi e soldati che sparano e uccidono. Un mix indefinito e solo accennato di fascismo, bolscevismo, nazismo, resistenza. Vari gli effetti ottenuti con la computer graphics. Lampi, tuoni, pioggia, nubi nere orlate di bianco fantasma. La proiezione della bimba che piange il padre morto sotto lo sguardo perfido dell’uccisore. Vari i riferimenti cinematografici (La caduta degli dei di Visconti, Il portiere di notte della Cavani). Le scene (Giò Forma) propongono un ponte che si spezza e riunisce (guerra e fratellanza) sopra edifici moderni in rovina. Quindi mura romane e il palazzo che sostituisce la tenda di Attila. Suggestivo l’affresco di Raffaello che nella stanza di Eliodoro in Vaticano rappresenta l’incontro Leone-Attila qui riprodotto con le figure che si animano e rientrano nel dipinto. In scena anche due cavalli, uno bianco e uno nero, che non mancano di suscitare polemiche tra gli animalisti. E finale in controluce, alla Strehler. Il punto di partenza di Livermore è a suo dire ideologico e dissacratorio, ma crediamo abbia dovuto, o voluto, fare i conti con varie sollecitazioni e sfumare molto.

Se la regia è ricca di particolari ma sostanzialmente confusa, si impone a chiare lettere la cifra dei cantanti. Odabella è la spagnola Saioa Hernández, soprano drammatico di coloratura al debutto. Voce forse non bellissima ma irruenza, intonazione, abilità virtuosistica e sapere. Attila è il grande russo (bashkiro come Nureyev) Ildar Abdrazakov, un basso stupendo per qualità vocale, emissione, teatralità. Di qualità superiore la voce del tenore Fabio Sartori-Foresto, un po’ indeciso all’inizio e poi insuperabile. Eccellente il baritono romeno George Petean-Ezio a sua volta al debutto. Nella parte il Leone del basso Gianluca Buratto. Buono Uldino di Francesco Pittari. Quanto al Coro diviso tra angeliche preghiere e barbare irruenze non possiamo che ripetere la solita, incondizionata ammirazione. Alla fine qualche mugugno nei riguardi regista e staff tuttavia sovrastato dall’entusiasmo generale. Per la conduzione di Riccardo Chailly (che non si presenta mai da solo) e per l’affascinante Ildar Abdrazakov che invece se ne sta li in camicia bianca e braccia levate sotto una pioggia di fiori.