L'intervista

«Banksy sa interpretare lo spirito dei nostri tempi»

A tu per tu con Marco Trevisan, autore del volume «Banksy. Vita, opere e segreti di un artista ribelle» (Diarkos ed.)
L’opera apparsa su un muro a Marble Arch a Londra nel 2019. © CdT Archivio / Andy Rain
Fabio Pagliccia
03.01.2024 22:26

Marco Trevisan, nel libro Banksy. Vita, opere e segreti di un artista ribelle (Diarkos ed.) ripercorre la biografia e l’attività artistica del più grande «street artist» impostosi sulla scena internazionale. Genio spregiudicato, dissacrante, utopista, Banksy (Bristol, 1974) si è affacciato alla ribalta, sotto copertura dell’anonimato, nei primi anni Novanta. Le sue opere, spiazzanti e provocatorie, portatrici di messaggi pacifisti, libertari, ecologisti, e replicate in innumerevoli varianti, continuano ancora oggi a sorprendere e inducono a riflettere.

Marco Trevisan, quale identità si cela dietro l’enigmatico Banksy? Che cosa sappiamo di certo della vita di questo artista di strada?
«Nel mio libro indosso i panni del segugio per tentare di svelare indizio dopo indizio, come in un giallo, l’identità di Banksy, fino a sostenere e a dimostrare che Banksy è Robin Gunningham. Già alcuni giornalisti britannici nel 2006 erano arrivati a questa conclusione, attraverso una serie di interviste a parenti e persone che lo hanno conosciuto. Senza contare l’ulteriore conferma giunta da una équipe di esperti della Queen Mary University di Londra che si è messa sulle sue tracce, ricorrendo a una speciale tecnica in uso nella criminologia più avanzata, quella della "profilazione geografica". Ma la prova diretta, e dunque definitiva, ci è arrivata di recente nientemeno che da un atto giudiziario notificato a Banksy / Rob Gunningham, citato a comparire in tribunale per un caso di diffamazione. Certo, Banksy si è servito dell’anonimato per costruire attorno alla sua figura l’aura un po’ leggendaria del "personaggio".

Di quale tecnica si avvale Banksy per realizzare i suoi lavori? Quale effetto mira a ottenere?
«Banksy ha iniziato la sua parabola artistica nei primi anni Novanta, quando poco più che ventenne si è affacciato sulla scena underground di Bristol come artista di graffiti a mano libera, e in seguito ha trovato la sua personale cifra stilistica nell’uso degli stencil, una tecnica che consente realizzazioni figurative veloci. Banksy non ha realizzato solo vignette satiriche sui muri delle città, ma anche sculture, mostre tematiche e itineranti, opere di arte performativa. All’inizio lavorava quasi sempre da solo, ma poi, soprattutto per la realizzazione delle sculture, delle installazioni e degli animatronic, ha dovuto appoggiarsi a uno staff di collaboratori».

Si è misurato in maniera efficace con i grandi temi della guerra, del consumismo, dell’ambiente, della povertà, dell’ingiustizia

Quali temi Banksy ha trattato nelle sue opere?
«Banksy, grande coscienza critica capace di interpretare, attraverso immagini, lo spirito dei nostri tempi, si è misurato in maniera efficace con i grandi temi della guerra, del consumismo, dell’ambiente, della povertà, dell’ingiustizia. Argomenti scomodi, che contengono una forte carica di contestazione e di ribellione nei confronti del "sistema" e di qualsiasi principio di autorità. Così, in The Flower Thrower (2003), stencil murale raffigurante un uomo mascherato che lancia un mazzo di fiori come se fosse una granata, si coglie un inequivocabile messaggio pacifista, veicolato dall’elemento dei fiori, simbolo di pace e di speranza; mentre nel dipinto satirico Show Me The Monet (2005) la sacralità delle ninfee è violata da due carrelli della spesa e da un cono stradale, simboli dell’alienante civiltà dei consumi e delle macchine. Tuttavia, le opere di Banksy, nonostante la loro connotazione contestataria, sono state sfruttate ben presto dal mercato e replicate ovunque».

Le opere di Banksy raggiungono quotazioni di mercato iperboliche. Come spiega questo fenomeno?
«Banksy, coltivando un genere di arte che per definizione è "fuorilegge", ha iniziato la sua attività ponendosi al di fuori del mercato, delle gallerie e dei circuiti ufficiali dell’arte, e ha finito per realizzare mostre nei musei e per vendere le sue opere alle aste per cifre stratosferiche. L’artista vende anche stampe e riproduzioni a prezzi accessibili, ma i pezzi unici come Devolved Parliament o Love Is In The Bin sono equiparabili alle opere di Damien Hirst o di Jeff Koons, anche se ancora non raggiungono quelle cifre da capogiro. Per questo motivo la forza corrosiva della sua opera si sarebbe affievolita nel tempo, mano a mano che l’artista perseguiva un successo planetario e si lasciava integrare e omologare dal sistema. Del resto, il mercato, compreso quello dell’arte, segue le mode, le tendenze e tutto ciò che è iconico; e i ricchi, i collezionisti vogliono opere che fanno o faranno la storia. Banksy e le sue opere, dunque, sono diventati delle icone e dei simboli del mondo contemporaneo».

Mi sento di affermare che l’arte di strada è vera arte

Oltre che artista, Banksy è un attivista impegnato in molteplici iniziative a sfondo sociale e benefico. Quali?
«Banksy, coerentemente con i contenuti sociali della sua arte, è da sempre impegnato in attività filantropiche e nelle battaglie in difesa dei diritti umani: ha realizzato dei murales in Palestina e un "hotel delle mostruosità" davanti al cosiddetto Muro di separazione in Cisgiordania per denunciare l’insostenibilità della condizione del popolo palestinese; ha fatto donazioni a enti, ospedali e associazioni benefiche, specialmente nel periodo della pandemia; ha finanziato una nave per dare soccorso agli immigrati nel Mediterraneo; si è speso per le vittime dell’uragano Katrina in Louisiana e in Florida».

Negli ultimi tempi la street art ha registrato una grande diffusione a livello planetario. Come vede gli sviluppi di questo genere d’arte?
«Confutando il vecchio pregiudizio che ha sempre additato la street art come forma d’arte bassa o, addirittura, ne ha disconosciuto il valore estetico, mi sento di affermare che l’arte di strada è vera arte. Ma essa, non dimentichiamolo, nasce come arte clandestina, illegale, ed è questa la sua forza vitale, la sua essenza. Perciò deve restare nelle strade se non vuole perdere la propria identità. È un controsenso che venga decontestualizzata trasferendola nei musei, esponendola nelle gallerie d’arte, vendendola in rete o battendola alle aste, luoghi per eccellenza dell’alta borghesia e delle classi più abbienti. Piuttosto, sarebbe auspicabile che le opere della street art, in ragione della loro vocazione popolare, venissero commissionate dallo Stato e dagli enti pubblici e privati con sempre maggiore frequenza in luoghi accessibili a tutti, in modo che un’ampia platea potesse fruirne».