L’intervista

Beatrice Rana: « Virtuosismo sì, ma sempre al servizio della musica»

A colloquio con la ventiseienne pianista salentina che venerdì 23 novembre al LAC inaugura la stagione dei recital pianistici di LuganoMusica spaziando tra Chopin, Albeniz e Stravinskij
Zeno Gabaglio
22.11.2019 06:00

Torna al LAC (venerdì 23 novembre, ore 20.30) la ventiseienne pianista pugliese Beatrice Rana per inaugurare i recital pianistici della stagione 2019/2020 di LuganoMusica. Per l’occasione Beatrice Rana affronta un programma di grande virtuosismo e potenza aperto dagli Studi per pianoforte, op. 25 di Chopin a proposito dei quali Alfred Cortot – il grande pianista svizzero che di Chopin fu allievo indiretto – disse: «una tale tempestosa e splendida vitalità percorre queste pagine che l’esecutore non solo si trova di fronte a un problema tecnico, ma è costretto a tradurre anche una poesia musicale».

Un giudizio a suo avviso ancora attuale?
«Sì, e non solo perché a esprimerlo è stato un grande musicista come Cortot: negli Studi di Chopin davvero le difficoltà tecniche sono uno strumento per esprimere qualcosa di più alto. Uno “studio” implica sin dal nome l’elemento didattico e perciò per tanti compositori costituisce un mero esercizio tecnico; in Chopin diventa invece mezzo per la creazione di autentiche opere musicali. Da un anno suono questi Studi regolarmente in concerto e più li suono, più mi accorgo di quanto siano straordinari: per le suggestive atmosfere che – tutte unite – delineano un arco narrativo di enorme potenza drammatica».

Non tutti gli “studi” scritti da compositori e pianisti hanno quindi un ampio valore musicale. Accanto a quelli celebri di Chopin o di Liszt – spesso presenti nei programmi di concerto – ce ne sono però altri molto frequentati e apprezzati dai pianisti in formazione (come quelli di Clementi, Moszkowski o Alkan) che raramente riescono a valicare il limite delle aule di conservatorio: come mai?
«Non credo che ogni studio scritto per pianoforte abbia un valore musicalmente ampiamente inteso, e quindi non credo che debbano tutti per forza raggiungere la sala da concerto. È pur vero che certe pagine con finalità di studio scritte da autori come Clementi o Czerny sono composizioni valide e belle a tutti gli effetti, e nei loro confronti col tempo si è forse creato un pregiudizio che ne ostacola la presenza concertistica. Sono autori molto celebri e frequentati nella didattica, ma che meriterebbero la dignità di un ascolto in concerto».

Quando un pianista sale sul palco è un musicista, ma anche un uomo di spettacolo, ma anche un artista, ma anche un artigiano. Sono ruoli e aspetti che devono coesistere e agire assieme per raggiungere un risultato che possa essere quanto più convincente possibile

Nel programma che presenta a Lugano compaiono i Trois mouvements de Pétrouchka di Igor Stravinskij, spesso indicati come una delle opere più difficili e virtuosistiche della letteratura pianistica. Il virtuosismo, in questo caso, è necessario per finalità espressive o anche spettacolari?
«Virtuosismo e difficoltà tecnica sono in Stravinskij pienamente al servizio della musica. C’è ovviamente anche un elemento spettacolare, ma se pensiamo allo Stravinskij strabiliante innovatore anche in ambito sinfonico e orchestrale, ci accorgiamo che la sua “spettacolarità” non è ricercata per mettere in evidenza le virtù di un singolo strumentista quanto per ottenere nel complesso degli effetti espressivi inediti e sorprendenti».

Quindi “tutto normale”, verrebbe da dire...
«Sì, anche se i Trois mouvements rimangono una delle pagine più ostiche e impervie mai scritte per pianoforte, e che Stravinskij poté immaginare di comporle così perché sapeva che il primo destinatario era Arthur Rubinstein, virtuoso tra i massimi della sua epoca e di tutto il Novecento. E mi piace sottolineare come anche i momenti di tecnica più esibita in realtà si colleghino idealmente alla resa coreografica e narrativa del Petruška originale, che era pur sempre una musica sinfonica per balletto».

Proprio a proposito della spettacolarità del virtuosismo capita di chiedersi se è giusto che un interprete, oltre ad analizzare e studiare la partitura, eserciti anche l’effetto visivo della sua esibizione.
«Quando un pianista sale sul palco è un musicista, ma anche un uomo di spettacolo, ma anche un artista, ma anche un artigiano. Sono ruoli e aspetti che devono coesistere e agire assieme per raggiungere un risultato che possa essere quanto più convincente possibile. La spettacolarità è importante, il pubblico la cerca, ma a mio avviso non ha senso studiare l’effetto visivo di un brano separandolo dal suo profondo significato musicale e artistico».

Nel suo recente disco per Warner Classics oltre a Stravinskij ha interpretato alcune celebri pagine di Ravel, mentre nel concerto di Lugano suonerà invece il terzo libro dell’Iberia di Isaac Albéniz. Entrambi gli autori hanno riportato in musica dei preziosi quadri di vita spagnola (per fascinazione il primo, per origine il secondo). In cosa differisce la Spagna di Ravel da quella di Albéniz?
«La Spagna di Ravel è immaginata, desiderata, anche romanzata. In Albéniz si tratta invece di una Spagna amata e vissuta con grande nostalgia, anche se il suo forte radicamento nel ritmo e nel colore folclorico è comunque reso attraverso il linguaggio musicale “internazionale” dell’epoca, con un raffinato retrogusto francese».