L’intervista

«Bertolucci? Ti spingeva a dare il meglio di te stesso»

Lo afferma il montatore italiano Jacopo Quadri che sarà tra gli ospiti de «L’Immagine e la Parola» a Locarno
Jacopo Quadri è nato a Milano nel 1964.
Antonio Mariotti
28.03.2019 06:00

Sarà, insieme al cineasta ungherese Béla Tarr, tra gli ospiti d’onore de «L’Immagine e la Parola», lo spin off del Locarno Film Festival (vedi programma completo su: www.locarnofestival.ch/immagineparola) che si apre stasera alle 20.30 al PalaCinema co la proiezione fuori programma a entrata libera del suo ultimo documentario da regista: Lorello e Brunello (2017) di cui sono protagonisti i gemelli Biondi che vivono da soli nel podere dove sono nati ai Pianetti di Sovana, in Maremma, una campagna dura e dove i problemi non mancano. Jacopo Quadri è però molto più noto come montatore (oltre un centinaio di lavori in più di 30 anni di carriera) e nell’intervista che segue ci offre un giro d’orizzonte sulla sua professione e in particolare sulla sua collaborazione con Bernardo Bertolucci. La sua attività spazia però anche nel campo della produzione, come si potrà scoprire a Locarno grazie alla proiezione di un altro documentario: Gli indocili di Ana Shametaj. Lo abbiamo raggiunto in Colombia dove è impegnato nel montaggio del nuovo film del regista Ciro Guerra, di cui a Locarno nel 2018 si è apprezzato l’intenso Pajaros de Verano.

A Locarno, oltre che a tenere una masterclass domenica, sabato sera sarà chiamato a ricordare la figura di Bernardo Bertolucci di cui ha montato gli ultimi film. Com’è nata la vostra collaborazione?

«Ho iniziato a lavorare con Bertolucci nel 1997 per montare L’assedio. Dopo aver girato diverse produzioni internazionali molto impegnative (da L’ultimo imperatore a Piccolo Buddha per intenderci), voleva tornare in Italia per lavorare su un film più “piccolo” che in origine era previsto solo per la televisione e questo gli ha consentito di cambiare anche collaboratori, scegliendoli meno star di quelli di prima. Per la fotografia ha chiamato ad esempio Fabio Cianchetti, che tra l’altro lavorava già con il fratello Giuseppe Bertolucci, e me per il montaggio perché credo avesse visto qualche film di Mario Martone che gli era piaciuto. Ricevere la sua chiamata è stata una cosa bellissima perché è sempre stato il mio idolo fin da giovane, in particolare per un film come Il conformista che ho visto quando avevo 15 o 16 anni. Tra l’altro, nel 1986, a 21 anni, al termine di un viaggio molto avventuroso in Cina con mia moglie, siamo stati sul set dell’Ultimo imperatore nella Città proibita a Pechino. È stato molto difficile riuscire ad incontrarlo: eravamo stati allontanati dal set ma poi abbiamo aspettato Bertolucci nella hall del suo albergo e mi sono presentato come uno studente del Centro sperimentale di Cinematografia che voleva solo dare un’occhiata e dare un senso al viaggio. Lì l’ho visto per la prima volta e qualche anno dopo l’ho reincontrato a Londra quando lui stava montando Il tè nel deserto e io lavoravo nello stesso studio. Quindi nel momento in cui lui mi ha chiamato un pochino ci conoscevamo già».

La vostra collaborazione è poi continuata anche dopo L’assedio.

«Sì, sull’Assedio mi ha lasciato molta libertà, anche perché io montavo il film mentre lui girava e, anche senza conoscermi, mi ha dato molta fiducia. Dal momento in cui sceglieva i suoi collaboratori, dava loro molta responsabilità e quindi erano ancora più tenutio a dare il meglio di loro stessi. Questo faceva sì che con Bertolucci si instaurava subito un rapporto di fiducia reciproco. Poi c’è stato The Dreamers e in mezzo anche un cortometraggio con Valeria Bruni Tedeschi, Ten Minutes Older, che è molto poco conosciuto, e poi Io e te che purtroppo è stato il suo ultimo film».

Nel suo lavoro lei alterna molto spesso lungometraggi di finzione e documentari: che differenza fa per un montatore lavorare su film di generi così diversi?

«La differenza è molto grande perché i documentari spesso non hanno sceneggiatura e a volte nemmeno un progetto scritto. Mi è capitato di lavorare su documentari che hanno solo il girato, mentre i film di finzione hanno comunque la sceneggiatura come base che, soprattutto in un primo momento, viene seguita anche durante il montaggio. È una guida precisa, anche se poi magari la si cambia, si iniziano a fare spostamenti o tagli. Nel documentario invece sostanzialmente non hai nulla e quando inizi a montare devi creare la storia, la narrazione. Già scegliere la prima inquadratura è come mettere il primo mattone di una costruzione. Il lavoro è più complesso, più lungo ma anche più creativo. Ho montato molti film di Gianfranco Rosi (Sacro GRA, Fuocoammare) che lui gira da solo, occupandosi anche della camera e del suono, e a parte lui a lavorare sul film ci sono solo io. Quindi i suoi sono film che nascono interamente al montaggio ed è chiaro che il nostro diventa un rapporto fondamentale e privilegiato».

Sui documentari c’è meno pressione economica rispetto alle fiction e quindi più libertà?

«Sì e no, sui documentari c’è più pressione etica, perché si lavora con la realtà e siccome dal momento in cui metti insieme delle immagini a livello di montaggio stai manipolando la realtà, bisogna stare molto attenti a non falsare le cose, anche se effettivamente le stai falsando. Bisogna rimanere molto onesti, molto limpidi».

Nella sua filmografia ricorrono diversi nomi di registi (Martone, Virzì, Bechis, Rosi): come nasce un rapporto continuativo tra regista e montatore? È più facile lavorare con chi si conosce già?

«Sì, è più facile perché c’è già una consuetudine, una stima reciproca. A volte i rapporti però svaniscono subito, spesso ci si perde, non ci si trova durante il lavoro o i film non sono fortunati e quindi si cambiano i collaboratori. Poi sono sempre i registi che scelgono non i montatori. I montatori rispondono al telefono quando squilla».