"Bonnie Parker? Quella ragazza ero io"

Faye Dunaway a Locarno ha ripercorso la sua carriera e un cinema che non c'è più
Mariella Delfanti
11.08.2013 10:53

LOCARNO - Ospite della cerimonia sulla Piazza venerdì sera, Faye Dunaway, celebrata con il Premio Leopard Club, ha mantenuto il profilo alto e un po' misterioso che le riconosciamo da sempre come attrice. Sigillata in una bellezza senza tempo che ne fa una della ultime dive del mondo del cinema, si è comunque rive­lata professionale e disponibile, sia nell'incontro con il pubblico, che si è tenuto in mattinata al Forum, che nell'intervista che vi presentiamo.

Signora Dunaway, lei che ha lavorato con i più grandi registi del Novecento, prendiamo ad esempio Sidney Pollak nei Tre giorni del condor , o Sidney Lumet in Netwok , come definirebbe il loro modo di fare cinema, rispetto a oggi?«Quel modo di fare il cinema non esiste più. Il cinema adesso è tutto effetti spe­ciali o fumetti. Sembrerebbe che sia questo che vogliono i ragazzini e sì sono divertenti, anche a me piace Robert Downey. Tutto è finito negli anni Settanta: fino a quel momento avevamo storie vere, e veri personaggi: adesso non ci sono più. Possiamo seguire delle storie e dei per­sonaggi con delle emozioni, ma non c'è più il dramma, più nulla di organico e di genuino, qualcosa che viene dall'arte e dall'anima. È movimento, azione, è un uccidili tutti, è un divertimento imme­diato per bambini che magari bambini non sono più. È raro trovare una sce­neggiatura decente».

Non ci sono più ruoli forti per le donne come lei a Hollywood?«Non ci sono mai stati...»

Ma lei ne ha interpretati parecchi... «Sono stata fortunata ad averli potuti scegliere. Oggi è diverso: non ci sono molti ruoli adatti alla mia età. Per que­sto ho acquistato personalmente i dirit­ti della pièce teatrale in cui ho recitato nel ruolo di Maria Callas -Master Classdi Terrence McNally - per portarla sullo schermo. Attualmente ne ho già girato la metà in veste di regista e di protago­nista e intendo finirlo il più presto pos­sibile. Si tratta di uno spettacolo sulle lezioni tenute da Maria Callas, negli Stati Uniti. Quella donna ha cambiato la forma dell'arte nel suo campo: quello che Fellini ha fatto nel cinema, la Callas lo ha fatto nel campo della lirica. Non potevo pensare di lasciare agli Studio l'adattamento cinematografico di un tale soggetto».

Che cosa è che regola il mercato del cinema oggi?«Il denaro, solo il denaro. Restano an­cora delle aree per un cinema diverso, ma si tratta di piccoli spazi per piccoli film d'arte che la gente va a vedere, mentre il cinema mainstream deve fare enormi profitti, anche se poi non c'è bi­sogno di tanto denaro per vivere. I mi­gliori scrittori oggi lavorano per la Tv. Penso che dovremmo tornare a dei film a piccolo budget e puntare sulla qualità, perché ci sono un sacco di persone di talento lì fuori che non riescono a farsi apprezzare».Un personaggio che resta impresso nella storia del cinema e che ha segna­to la sua fama internazionale come at­trice è quello di Bonny Parker, nel film Bonny and Clyde. Che cosa ricorda di quel film?«Tutti i ruoli che ho interpretano tocca­vano delle corde della mia personalità, ma Bonny ero io. Come lei nata nel Sud, in una piccola modesta comunità della Florida di cui conoscevo perfettamente il dialetto. Lei era terribilmente acuta e naïve: esprimeva il sogno che non si è mai realizzato di uscire da una situazio­ne personale e sociale di miseria di di­sperazione e di isolamento. È il mio personaggio preferito. Un altro dei caratteri che ho adorato in­terpretare e che ha in comune qualcosa con Bonny è Evelyn Mulwray, inChina­town; una donna raffinata e apparente­mente distaccata, che rivela a poco a poco le sue fragilità. È uno dei ruoli che mi piacciono di più, perché è misterio­sa, ha un segreto, un passato profondo di cui si vergogna e che cerca di rimuo­ve in modo neurotico. Questo permette all'interprete di mettere a parte il pub­blico di qualcosa che non si sa, ma si capisce c'è dietro. Io capivo perfetta­mente la sua personalità; anch'io ero dentro una ragazza di provincia che Hollywood aveva trasformato in un per­sonaggio sofisticato».

E poi c'è il ruolo che le ha fruttato l'O­scar, quello di Diana Christensen in Network di Sidney Lumet. Che cosa le ha dato l'Oscar, il potere?«La libertà di scegliere».

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