Bruno Todeschini e quei dodici giorni in treno con Patrice Chéreau

«È piacevole essere omaggiati in questo modo. Spero solo che non sia come uno di quei premi alla carriera che ricevi due mesi prima di morire». Si esprime con molta ironia Bruno Todeschini, classe 1962, svizzero di origini italiane e ospite d’onore delle 54. Giornate cinematografiche di Soletta, primo festival al mondo a dedicargli una retrospettiva personale: tredici lungometraggi che ha interpretato tra il 1992 e il 2016 e che rappresentano un percorso artistico tutto europeo (con l’aggiunta del recentissimo film italiano Il mangiatore di pietre, presentato nella sezione Panorama).
Un percorso di cui Todeschini ha parlato nel corso di due incontri aperti al pubblico, uno incentrato sul mestiere dell’attore in generale, l’altro sui tasselli specifici della sua filmografia.
Innamoratosi del teatro tramite il fratello maggiore, si è trasferito a Parigi dopo essere stato ammesso nel gruppo degli Amandiers, sotto la direzione di Patrice Chéreau. Con il regista francese, scomparso nel 2013, è nata un’amicizia che è stata messa in crisi solo una volta: «Eravamo ad Avignone per le prove di uno spettacolo, e io dovevo tornare a Parigi per un provino, per il film Police di Maurice Pialat. Patrice si oppose, ma io ci andai lo stesso. Fecero il film senza di me, e Patrice non mi rivolse la parola per due anni». A oltre trent’anni di distanza, il palcoscenico occupa un posto minore nella carriera di Todeschini, come mai? «Io ho sempre sognato il cinema, anche all’epoca degli Amandiers perché Chéreau aveva fatto costruire degli studi cinematografici all’interno del teatro. Mi hanno offerto diversi ruoli teatrali dall’ultima volta che sono stato sul palco, sette-otto anni fa, ma accettarne uno avrebbe significato rinunciare a quattro o cinque film».
Todeschini non si rivede mai sullo schermo dopo la prima del film, ma in occasione della masterclass tenuta a Soletta osserva sprazzi di interpretazioni passate, tra cui un monologo shakespeariano ne La sentinelle di Arnaud Desplechin «Oggi farei quella scena in un altro modo» afferma però. Non si rivede, ma ricorda ogni dettaglio della lavorazione, che si tratti delle conoscenze linguistiche del regista giapponese Nobuhiro Suwa («Sul set comunicava tramite un interprete») o dell’utilizzo di un vero treno da parte di Chéreau per Ceux qui m’aiment prendront le train: «Per girare tutta quella parte, dalla partenza all’arrivo, abbiamo passato dodici giorni a fare avanti e indietro sullas tratta Parigi-Mulhouse» ricorda.
Ironizza anche sulle scene d’amore, che non gli creano alcun fastidio sul piano recitativo: «In realtà è un lavoro molto tecnico, il posizionamento della macchina da presa e delle luci conta più delle prestazioni degli attori. Mi è capitato persino di addormentarmi sul set quando si girano quelle scene. Però possono capitare episodi divertenti come quello di 1 journée di Jacob Berger, dove la mia partner sullo schermo è stata la moglie del regista». Ha mai pensato alla regia? «Sì, mi piacerebbe molto, soprattutto per poter dirigere gli attori. Qualora capitasse, dovrò solo assicurarmi di essere circondato da persone esperte a livello tecnico, perché non ho conoscenze in merito».