Buon compleanno a Milva, la «pantera rossa» della canzone italiana

Spirava la stessa aria del giardino dell’Eden, evidentemente, tra i critici a cavallo tra gli anni Cinquanta e Sessanta, intenti a dare nomi di animali alle cantanti italiane. E così tra la tigre di Cremona e l’aquila di Ligonchio, per Maria Ilva Biolcati in arte Milva, che arrivava da un piccolo comune del ferrarese, pensarono a «La pantera di Goro» (la sequenza, fortunatamente, si chiuse poi con Nada: il «pulcino di Gabbro», infatti, non si poteva sentire). E il resto, come si dice, per una volta a buon titolo, è storia. Storia della Canzone Italiana, con la S, la C e la I maiuscole, perché Milva, in una carriera iniziata sessant’anni fa, è stata tra le più versatili, inarrivabili e inconfondibili interpreti. È questo anniversario che festeggiamo. Certo, il calendario ci ricorda che oggi «la rossa» soffia sulle candeline. Il numero non lo ricordiamo: potete leggerlo ovunque, siamo dei gentiluomini e, soprattutto, lei è sempre stata una grande signora, un’opera d’arte più che un’artista e, come tale, è senza età. Anche la sua musica lo era, perché è difficile trovare un’altra voce che, come la sua, abbia saputo dedicarsi con altrettanta efficacia alle più eterogenee suggestioni sonore. Restando, sempre, ostinatamente popolare.

In entrambi i sensi. Popolare perché il popolo l’ha sempre amata. Certo, magari gli uomini ne hanno ammirato prima il fascino. Certo, forse le donne le invidiavano quei lunghi capelli, quel gesto teatrale con cui sapeva sottolineare ogni sillaba, ogni sfumatura dei suoi brani. Ma poi c’erano le canzoni, quelle che entravano in testa, quelle «nazional popolari», ma come avrebbe potute intenderle Gramsci e non Baudo. C’era la volontà di partecipare ai festival canori, sempre portando qualcosa di originale e di arrembare la vetta delle classifiche. Ma, contemporaneamente, c’erano i progetti nobili, quelli creati a tavolino per portare musiche diverse alle orecchie di tutti, il modo migliore per capitalizzare tutto quel successo. Così gli esordi si inseriscono a pieno titolo in un filone sofisticato che imperava in quel periodo di passaggio tra la canzonetta e la canzone d’autore (son due definizioni che – oggi – lasciano il tempo che trovano, ma usiamole per capirci) ecco già, sul suo primo disco, un’inevitabile versione di Nel blu dipinto di blu, che era un brano «fresco» e non ancora un classico.
Ed ecco subito gli esperimenti come il Flamenco rock, il recupero della turbinante Milord di Edith Piaf, ma anche il romanticismo de Il mare nel cassetto. E questo, come si suol dire, era solo l’inizio. Una carriera, possiamo dirlo, senza macchie: non possiamo rimproverarle nemmeno un musicarello di quelli a cui pochi, forse nessun altro, rinunciò. Se era «commerciale» avveniva perché il «marchio» Milva era una garanzia e non perché cercava di assecondare la moda del momento e, di certo, cantando L’opera da tre soldi non si punta ai juke box. Milva ha ballato il tango e il sirtaki, ha cantato Kurt Weill e Vangelis, ha lavorato con Gino Bramieri e con Giorgio Strehler restando sempre, assolutamente... Milva. Quella voce unica che sapeva appropriarsi di qualsiasi testo, perfettamente credibile come Jenny delle Spelonche, ma anche come mondina, a suo agio con il repertorio del tabarin – ambiente non esattamente proletario – e con Bella ciao di cui incise un’orgogliosa versione, facendola digerire anche a chi il pugno non lo aveva mai chiuso. Tra le collaborazioni vogliamo ricordare quella con Enzo Jannacci, che le dedicò La rossa, curando anche gli arrangiamenti di tutto l’album, e poi quella con Battiato, sfociata in una trilogia perfetta: Milva e dintorni, Svegliando l’amante che dorme e Non conosco nessun Patrizio. Chi ricorda Alexander Platz, una hit anomala negli anni Ottanta, sappia che quei dischi traboccano di capolavori. Chi possiede quegli album se li tenga stretti e chi li trova li acquisti senza pensieri perché, purtroppo, mentre la discografia muore anche quelli, come tante altre opere fondamentali della musica italiana, sono diventati dei pezzi rari.
Ecco, siamo arrivati alla fine di quella che vuole essere una celebrazione gioiosa, perché la pantera è sempre con noi, e ci rendiamo conto che, semplicemente, in un articolo Milva, semplicemente, non ci sta. Forse neppure in un libro. Restano fuori i suoi uomini, le sue amicizie (quella con Alda Merini è sfociata nel miglior omaggio in musica alla poetessa), la sua Martina, la figlia che ha ritirato in sua vece il premio alla carriera che il Festival di Sanremo, amato e odiato, le ha conferito l’anno scorso come gesto riparatore (quindici partecipazioni e mai un primo posto). Perché Milva non canta più. Con un gesto che pochi sembrano saper compiere (solo Fossati e Guccini negli ultimi anni), ha voluto fare un passo indietro senza nascondere qualche problema di salute e, naturalmente, «gli inevitabili veli che l’età dispiega sulle corde vocali», come ha scritto nel suo commiato dove aveva aggiunto «Ritengo che proprio questa speciale combinazione di capacità, versatilità e passione sia stato il mio dono più prezioso e memorabile al pubblico e alla musica che ho interpretato e per quello voglio essere ricordata». E lo sarà. Sempre.