L’intervista

«Cari giovani, il futuro è incerto, ma coltivate le vostre speranze»

Il professor Fabio Pusterla, noto poeta ticinese, ci racconta la sua esperienza da insegnante e lancia un messaggio agli studenti: «L’orizzonte è fosco ma non cedete alla disperazione»
©CdT/Archivio
Giorgia Cimma Sommaruga
27.11.2021 18:00

«Uno dei più grandi problemi dell’educazione è trovare il modo di conciliare la soggezione all’autorità legittima colla facoltà di servirsi della libertà: [...]. Ma come coltivare la libertà esercitando l’autorità?». Così chiosava Immanuel Kant ne La pedagogia. Oggi, all’USI si è tenuto il primo convegno promosso dall’associazione «Essere a scuola» durante il quale si è discusso del ruolo dell’insegnante. Tra i partecipanti il professore e noto poeta ticinese Fabio Pusterla: lo abbiamo intervistato.

Una lunga carriera come professore presso il Liceo 1 di Lugano: le ambizioni dei giovani come sono cambiate negli anni?
«Non sono mai stato molto propenso a paragonare gli studenti “di una volta” con quelli di “oggi”; spesso, mi è parso che indulgere in questa pratica portasse fuori strada, e comunque servisse solo a giustificare la propria scarsa sintonia con il presente, che è il tempo in cui invece, volenti o nolenti, dobbiamo vivere, operare, e in questo caso insegnare. Non so bene rispondere, d’altra parte, a questa domanda; forse perché non sono sicuro che “le ambizioni” siano ciò che caratterizza, oggi come un tempo, gli studenti liceali. Se invece di ambizioni dicessimo speranze, allora potrei forse suggerire una cosa: le speranze di oggi sono più incerte e forse più deboli di quelle di una volta. Lo sono dal punto di vista lavorativo, visto che l’orizzonte è fosco, e dal punto di vista latamente politico, perché le prospettive di uno sviluppo armonioso, giusto e sostenibile non sono certo molto probabili. D’altro canto, ogni epoca ha forse avuto le sue ragioni di speranza e di disperazione; e dunque dobbiamo augurarci che i giovani sappiano anche oggi coltivare le prime e non cedere troppo alla seconda. La speranza, inoltre, a me sembra molto più importante dell’ambizione: questa è individuale, l’altra può riguardare tutti».

Quanti studenti hanno intrapreso la carriera dell’insegnamento?
«Tra coloro che hanno scelto di studiare delle discipline umanistiche, molti sono tornati nella scuola come insegnanti: in parte perché la scuola è per loro uno dei maggiori sbocchi professionali; ma forse anche per motivi più profondi e ideali, o almeno così mi auguro. Credo sia diversa la situazione di chi ha studiato discipline scientifiche, e ha di fronte maggiori possibilità di scelta. Proprio pensando a queste materie, mi sembra importantissimo che la professione dell’insegnante sia vista come importante, affascinante e professionalmente appagante (cose che oggi si danno assai meno di un tempo): solo così si potrà sperare di attrarre verso la scuola i migliori, e di non trasformare la scelta dell’insegnamento in una soluzione di ripiego».

Se ripenso a quei mesi, quando avevo una classe di quarta liceo già sicura di ricevere l’attestato di maturità senza dover affrontare gli esami, non conservo memorie molto positive. L’insegnamento a distanza è un mediocre surrogato dell’insegnamento vero e proprio

Sempre più difficile diventare insegnanti di lettere oggi. Quale consiglio si sente di dare a chi si avvicina a questo percorso?
«Non riesco a immaginare che qualcuno scelga di studiare lettere senza avvertire in sé una forte passione per la letteratura. Coltivare questa passione, tenerla accesa come un fuoco segreto, alimentarla e farla crescere mi sembrano le cose più importanti per affrontare le difficoltà: quelle occupazionali prima, quelle relative alla professione poi».

Quali sono le difficoltà della carriera di un insegnante?
«Le difficoltà sono molte, non c’è dubbio. Una l’ho già sfiorata poco fa: è fin troppo facile lasciarsi catturare dall’abitudine, dimenticarsi di quel fuoco, trasformarsi in un impiegato dell’educazione. L’altra riguarda il rapporto con gli studenti, che può essere splendido e complesso se l’insegnante conserva dentro di sé, insieme alla passione, qualche altra caratteristica che la letteratura ci insegna: la capacità di ascolto, la curiosità umana, la comprensione profonda. Se queste doti si affievoliscono, o se non sono mai esistite, l’insegnamento diventa una sofferenza per tutti. Ma se invece queste cose ci sono, e crescono nel tempo, allora ciò che avviene dentro le pareti dell’aula è un’esperienza straordinaria, intensa. Molto faticosa, certo; ma anche molto vitale».

Uno sguardo alle problematiche dell’insegnamento a distanza a causa della pandemia, che cosa ha generato?
«Ho vissuto l’insegnamento a distanza solo durante il primo lockdown, cioè nella primavera del 2020, perché al termine di quell’anno ho concluso la mia carriera di insegnante liceale; poi ho continuato a insegnare, purtroppo anche a distanza, all’università, dove però le cose sono in parte diverse. Se ripenso a quei mesi, quando avevo una classe di quarta liceo già sicura di ricevere l’attestato di maturità senza dover affrontare gli esami, non conservo memorie molto positive. L’insegnamento a distanza è un mediocre surrogato dell’insegnamento vero e proprio; penalizza gli studenti meno motivati, meno preparati o che vivono situazioni di profondo disagio (familiare, psicologico e in qualche caso psichico); nella distanza vengono meno le cose più importanti che avvengo in presenza, diminuisce il contatto, il dialogo, la possibilità di costruire insieme un rapporto. Infine, e non è la cosa meno significativa, a distanza si accentuano le differenze sociali e materiali: uno vive in una bella casa, con spazi accoglienti, libri, e un computer personale; l’altro vive in un piccolo appartamento, e l’unico computer serve a tutta la famiglia. E poi, ogni studente ha la propria particolare storia, la propria particolare situazione personale e familiare; e non tutti restano a casa con i genitori (quando ci sono) con la stessa serenità. In un certo senso, l’insegnamento a distanza ci mostra nella sua limitatezza e nella sua ingiustizia ciò che la scuola è, o dovrebbe essere: un luogo di uguaglianza, di confronto, di crescita comune. Naturalmente si può obiettare: durante la pandemia non c’erano molte alternative. È vero; ciò che però temo e che, come già da più parti qualcuno ha proposto, le soluzioni dettate dall’emergenza finiscano poi per continuare anche dopo la fine dell’emergenza, snaturando la scuola».

All’università insegno a studenti che hanno scelto di studiare letteratura, e che, almeno entro certi limiti, sono dunque interessati e ben disposti verso la mia lezione. Al liceo l’attenzione e l’interesse vanno conquistati giorno per giorno, ora per ora

La differenza più grande tra l’insegnamento al liceo e quello all’università.
«In un libro-intervista a uno dei maggiori studiosi e critici letterari del secondo ‘900, Pier Vincenzo Mengaldo, si può trovare la risposta a questa domanda. Mengaldo, rispondendo alle domande di Stefano Brugnolo, dice di rimpiangere appunto gli anni dell’insegnamento liceale (e lo dice dall’alto di una delle più prestigiose carriere accademiche): perché al Liceo, afferma, si può sperare di entrare nella vita dei propri studenti, e forse di influenzarla. Credo sia proprio così; anche se forse oggi non è impossibile che qualcosa di simile avvenga a volte anche con gli studenti universitari. Ma più raramente. Poi forse aggiungerei un’altra cosa: all’università insegno a studenti che hanno scelto di studiare letteratura, e che, almeno entro certi limiti, sono dunque interessati e ben disposti verso la mia lezione. Al liceo l’attenzione e l’interesse vanno conquistati giorno per giorno, ora per ora; e fare amare Dante, per non fare che un esempio, a uno studente che poi andrà a studiare farmacia o ingegneria è una scommessa maggiore, più importante e più difficile da vincere. E appunto per questo più affascinante».

Poeta e professore: una strada ha influenzato l’altra?
«Ho imparato moltissimo dai miei studenti, e credo di essermi giovato di questo insegnamento umano nel corso dei miei tentativi di scrivere poesia; insegnare, come leggere, ci offre infatti la possibilità di affacciarci su molte vite diverse dalla nostra. Il fatto che io fossi uno scrittore ha influenzato positivamente il mio lavoro di insegnante? Lo spero, ma questo non posso dirlo io».

Insegnare ma anche educare. Le manca insegnare al liceo?
«Capisco ovviamente il significato distinto di questi due termini; anche se, nella mia esperienza, non li ho mai sentiti come separati, né al liceo né all’università. Insegnare è, deve essere, anche educare; se così non fosse, non di insegnanti ma di istruttori bisognerebbe parlare. Dell’insegnamento liceale mi mancano gli studenti, il rapporto intenso che si stabiliva con loro; e un certo numero di amici e colleghi con cui si poteva interpretare la scuola nel segno della speranza, come ho detto all’inizio, della condivisione e del dialogo».