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Carmelo Rifici e il teatro «digitale»

Il direttore artistico del LAC parla del progetto «Lingua madre» e della sua nuova produzione «Ci guardano - Prontuario di un innocente», che verrà presentata il 20 marzo
Il cast di «Ci guardano - Prontuario di un innocente», produzione ideata, scritta, diretta da Carmelo Rifici e presentata nell’ambito del progetto «Lingua madre». ©2021 LAC - Foto REC
Laura Di CorciaeRed. AgendaSette
19.03.2021 15:52

È partito sabato scorso il progetto Lingua madre, ideato dal LAC in seguito alle restrizioni anti-pandemia, che pesano particolarmente sul teatro. Una programmazione digitale pensata per il web, che non si limita a mettere in streaming spettacoli già esistenti, ma con produzioni originali che saranno via via presentate sulla piattaforma del LAC. Abbiamo avvicinato il direttore artistico Carmelo Rifici per indagare il senso del progetto e per discutere della sua nuova produzione, Ci guardano - Prontuario di un innocente, nata in seno al progetto e visibile online dal 20 marzo.

Come nasce Lingua madre? Quali obiettivi vi siete prefissati? Cosa invece volevate assolutamente evitare?
«Il progetto è nato durante il secondo lockdown, quando abbiamo dovuto interrompere tutte le attività che avevamo immaginato per un pubblico di cinquanta persone. A quel punto non c’era più una possibilità di riapertura imminente come avvenuto la primavera dello scorso anno, quando aspettavamo soltanto i tempi della ripartenza. L’unica soluzione era appoggiarsi ad un mezzo che fino a quel momento avevamo deciso di non utilizzare: il digitale. Una programmazione online, quindi, che però ci permettesse di mettere in campo gli obiettivi artistici che ci eravamo prefissati fin dall’inizio. Il digitale non come semplice mezzo per arrivare al pubblico in una situazione di teatri chiusi, ma come mezzo di vera e propria conoscenza. Mi sono trovato in quell’occasione a discutere di queste mie necessità con Paola Tripoli (direttrice del FIT, Festival internazionale del Teatro, ndr) e insieme abbiamo deciso di immaginarci questo progetto, formando un comitato di redazione insieme ad autori e collaboratori che lavorano con noi da tempo».

Il progetto Lingua madre è accompagnato da un manifesto. Di cosa si tratta?
«Sono punti di intenzione, punti fermi entro quali muoverci che ci hanno posto dei paletti di ricerca, per non rischiare di perderci e per dare alla nostra visione un posizionamento etico, onesto, per evitare quindi l’utilizzo del digitale come palliativo allo spettacolo dal vivo. Il manifesto ruota attorno a delle domande che ci siamo posti. Quali erano i nostri desideri? Quali le nostre paure? Che cos’è che non ci tornava, che cos’è che invece percepivamo come necessario? Sono quindi arrivati dei nuclei tematici che fanno parte di Lingua madre: il linguaggio in tutte le sue possibilità e aberrazioni, il problema del corpo, che a causa della pandemia ha ritrovato una fragilità che la società contemporanea tende a nascondere attraverso un corpo performante, sempre perfetto, da ultimo l’abolizione dei riti, soprattutto a quelli di passaggio, come il funerale. Noi che facciamo teatro sappiamo che questi riti sono proprio le fondamenta della costruzione di un’identità della società».

Come può il pubblico avvicinarsi a questo progetto?
«È molto semplice. Il progetto è costruito per avere un canale sul nostro sito consultabile con grande facilità. Appare una prima schermata dalla quale ci si muovere con grande libertà attraverso parole chiave, che aprono ad altre finestre di testo. Mano a mano si svelano i vari progetti. Il pubblico è estremamente libero di muoversi in questa libreria digitale connessa nei temi. Ci sono video, audio e conferenze, quindi forme diverse che però si radunano attorno a tematiche estremamente legate. Lo scopo ultimo è quello di esprimere il rapporto fra corpo e linguaggio attraverso un rituale che ci ricomponga come comunità, e non più come società economica o politica e basta. Come comunità che condivide un’esperienza e trae da quella esperienza non dico un insegnamento, ma una possibilità di conoscenza».

Un momento delle riprese di «Ci guardano». © 2021 LAC
Un momento delle riprese di «Ci guardano». © 2021 LAC

Parlavamo di insegnamento: che cosa ha insegnato questa esperienza artistica?
«Che non c’è nessun progetto di vita che non possa essere non solo modificato, ma ripensato e rinnovato completamente. Lingua madre mi insegna che non esiste nell’arte nessun preconcetto e che in realtà tutti i preconcetti sono facilmente superabili nel momento in cui ci si pone nella possibilità di osservare bene la cosa. Sono una persona nata all’interno del teatro di regia, mai e poi mai mi sarei immaginato di lavorare attraverso le immagini o attraverso procedimenti tecnologici. Mai mi sarei immaginato che avrei potuto interrompere una produzione e chiedere al pubblico di aprire un glossario per cercare il significato di un termine».

Una scena di «Ci guardano». ©2021 LAC - Foto REC
Una scena di «Ci guardano». ©2021 LAC - Foto REC

Passiamo invece alla sua produzione, Ci guardano. Da quali domande nasce il suo nuovo lavoro?
«Delle domande che mi albeggiavano dentro sono evidenti guardando il lavoro. In un momento di crisi come quello della pandemia, la fragilità del corpo e del debole – che in questo caso si incarna nella metafora del figlio – è più evidente. Cosa aspetta un figlio? Aspetta che la parola del padre torni e dia identità al suo mondo. Ci guardano è l’attesa di una voce che si domanda se quella parola tornerà e che senso avrà. Questa voce, questa presenza, avendo vissuto qualche millennio sulla Terra e avendo constatato cosa possa significare attendere la parola del padre, come l’hanno aspettata Telemaco, Ifigenia o Cristo, sa che questa parola può essere tremenda. Può creare sì, identità, ma anche prigione. È una parola che dà senso, ma quel senso può essere una gabbia e può chiedere un sacrificio al figlio. Pensiamo a Isacco. Questa presenza conosce quale può essere il destino del figlio. Ma sa che può esserci un altro futuro, che ha a che fare con il tema dell’osservazione. Se noi sappiamo che siamo degli osservatori e che siamo osservati, forse non ci limiteremo più ad attendere la parola, ma ci metteremo nella condizione di generare parola».

Un’altra scena «Ci guardano». ©2021 LAC - Foto REC
Un’altra scena «Ci guardano». ©2021 LAC - Foto REC

Nello spettacolo c’è una riflessione metateatrale: quale diventa il ruolo dello spettatore? Quali illusioni si rompono?
«Lo spettatore pensa di essere colui che guarda. Teatro vuol dire guardare, stare dalla parte di chi guarda. Ecco, noi mettiamo in discussione questa cosa. Rinnoviamo il patto fra chi guarda e chi è guardato. È una nuova possibilità di lettura. Non c’è una soluzione, ma il tentativo di ristabilire un patto. E il patto è quello della comunità, della possibilità che uno trasformi l’altro».

Ultima domanda: il teatro è innocente?
«No, il teatro è il carnefice. Ha bisogno di corpi per sacrificarli al pubblico. È il linguaggio che sacrifica i corpi, che vengono lì per amore di quella parola. Ma quell’atto sacrificale non è in cattiva fede. È un sacrificio necessario, fatto per la conoscenza. Nessuno muore veramente, ci sono solo morti simboliche, morti che aprono. Non c’è un linciaggio reale, che altri mezzi utilizzano in maniera persecutoria, come la televisione».

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