Il personaggio

Cesare Lucchini: «Il disagio dei giorni nostri, ma senza retorica»

Esposte a Londra, fino al 1. giugno, venti opere dell’artista ticinese sulla condizione dell’uomo in difficoltà
Cesare Lucchini nel suo atelier. (foto Maffi)
Paride Pelli
16.04.2019 06:00

«Vorrei continuare ad andare a dipingere nel mio atelier con la voglia di oggi. Se vivessi così sino alla fine dei miei giorni sarei un uomo felice. E visto che nelle mie tele tratto temi drammatici dell’umanità, spero che le ingiustizie, un giorno, si fermino. Sarei lieto di non doverne più rappresentare e di potermi limitare a disegnare un semplice, comune, vaso di fiori».

È una citazione che ci aiuta a comprendere chi c’è dietro, o dentro, Cesare Lucchini, la cui opera recente, dall’11 aprile scorso e sino al 1. giugno, è al centro di una mostra personale alla Galleria Rosenfeld-Porcini di Londra. Lucchini, classe 1941, non nasconde la soddisfazione di poter esporre nella capitale del Regno Unito alcune delle sue opere più significative e recenti, realizzate a partire dal 2017. «È la terza volta che espongo a Londra, ma è come se fosse la prima: tensione e orgoglio si mischiano, ma a prevalere è sempre l’emozione». Nella City, dove la critica ha già accolto favorevolmente il lavoro del pittore ticinese, sono esposte venti tele di ragguardevoli dimensioni, tutte realizzate dopo la retrospettiva del 2016 al Kunstmuseum di Berna.

Sin dagli anni Sessanta, Lucchini ha offerto un contributo riconosciuto internazionalmente all’arte espressionista astratta. Le sue composizioni sono animate da segni enigmatici e fenomeni diffusi in cui spicca il colore, il suo distintivo rosso in particolare. Mentre nell’ultimo periodo, per stessa ammissione dell’artista, l’opera di Lucchini si è trasformata ed evoluta, mantenendo un astrattismo di fondo e dando vita e corpo a figure che escono dalle sue tele. Il punto di partenza di Lucchini è d’altronde l’esperienza personale nella nostra epoca. L’artista reagisce in modo sensibile alle notizie terribili rilevate quotidianamente dai media, esprimendo una pittura appassionata, intensa, energica, dinamica. Lucchini fissa queste immagini nella sua pittura, che lo seguono notte e giorno, in autodafé astratti. I segni di sventura che emergono dai dipinti non sono mai retorici. «Mi ha colpito profondamente l’esperienza di Lampedusa – ricorda Lucchini – quando visitai l’isola e il suo centro di accoglienza-detenzione per immigrati durante gli sbarchi di questi disperati. Sono immagini che mi accompagnano tutt’ora e che ho impresso su alcune mie tele, ma in modo naturale e, soprattutto, senza retorica».

Situazioni di disagio estremo, appunto, che l’hanno portato a concentrarsi su «quel che rimane» - è il titolo di alcune sue opere - dopo una tragedia, dipingendo impronte e pezzi di oggetti abbandonati, oltre a figure che stanno a guardare. Barconi, relitti, filo spinato, esseri umani senza meta sono i riferimenti alla tragedia pressoché quotidiana che si consuma in mare, con i disperati che a cadenza regolare approdano sulle coste. Ma Lucchini è attento pure alle dinamiche ambientali, ai disastri delle petroliere e a un mare nero, inquinato, che impregna gli animali raffigurati, oltre alla tela stessa. In altre opere dell’artista ticinese dominano invece figure di piccole dimensioni che si contorcono su grandi forme cubiche, quasi ad alludere a un «altare improvvisato».

Lucchini, «stregato» dalla pittura sin da ragazzino («Durante una vacanza a Camogli, fuori dall’albergo c’era un artista di strada che dipingeva la chiesa e il porticciolo: io ero talmente affascinato dal suo lavoro che guardavo più lui del mare. Mia mamma Alice capì e, una volta rientrati a Bellinzona, dove abitavo, andò a comprarmi cavalletto, tele e scatole di colori. Da lì ho cominciato a dipingere e non ho più smesso») si è diplomato nel 1965 all’Accademia delle Belle Arti di Brera a Milano, città in cui ha dipinto fino al 1988. È in seguito rientrato a Lugano e contemporaneamente in Germania, inizialmente a Düsseldorf poi a Colonia, dove non ha mai cambiato la sua tecnica lavorativa nel corso della sua lunga carriera artistica.

«La tecnica rimane la stessa, a cambiare semmai è il modo di rappresentare un soggetto. Con il passare degli anni - prosegue l’artista - ho voluto e in un certo senso dovuto modificare l’approccio, innovare la mia pittura, approfondirla ma allo stesso tempo semplificarla, affinché risultasse comprensibile; per un artista essere capito è fondamentale, il mio obiettivo è poi quello di trasmettere emozioni e di far passare messaggi attraverso le mie tele».

Senza ricorrere ad alcun disegno preparatorio, di fronte all’immensa tela bianca, Lucchini inizia a dipingere, risolvendo attraverso la pittura tutte le difficoltà che si presentano nel fare. La ricchezza delle superfici si rivela poco a poco. La sua metodologia è quella di lavorare contemporaneamente a una serie di quadri aventi tutti lo stesso soggetto narrativo. Solo l’espressione pittorica crea un’immagine diversa fra le singole tele. Anche se i temi possono apparire desolanti, ciò che li salva dal pessimismo più nero è la ricchezza della tavolozza. La luminosità dei colori, in totale contrasto con la tristezza dei soggetti affrontati, crea una dinamica straordinariamente potente.

Lucchini non vuole che la gravità dei temi affrontati sia al centro della lettura dei suoi quadri. Attraverso la forza espressiva dei dipinti, intende invece suscitare un senso liberatorio e renderci consapevoli che solo «noi» possiamo essere gli artefici di un cambiamento.

Con l’auspicio che presto, un giorno, Cesare Lucchini possa davvero dipingere quel semplice ma bramato vaso di fiori.