Alla ticinese Carla Juri il premio speciale della critica indipendente

Per l’attrice Carla Juri, il Locarno Film Festival non è una meta lontana cui tornare, ma un orizzonte vicino che scandisce il suo percorso artistico e di vita. Carla Juri, 40 anni, è nata a Locarno. E qui ritrova il dialogo con il pubblico e con una comunità cinematografica che, negli anni, l’ha vista crescere e affermarsi.
Nella 78. edizione, la sua presenza è stata, per così dire, doppia: in concorso internazionale con Donkey Days di Rosanne Pel e e, oggi pomeriggio al Rivellino, per la consegna del Boccalino d’Oro speciale, assegnato per celebrare i 25 anni del premio della critica indipendente, alla quale erano presenti anche Giona A. Nazzaro, Norman Gobbi e Nicola Pini.
«Questo riconoscimento mi emoziona molto - confida Carla Juri al Corriere del Ticino - perché arriva da un gruppo di persone che conosce bene il festival e il suo spirito. È un gesto d’affetto che sento, che mi rilassa e mi fa sorridere. Significa che c’è un pubblico che mi ha seguita nel tempo e che continua a farlo, e sapere di poter contare su questa relazione di fiducia è qualcosa che non si può dare per scontato».

Venticinque anni di storia
Istituito nel 2000, il Boccalino d’Oro è un riconoscimento radicato nel territorio e nello spirito conviviale del festival. Nato per avvicinare anche il pubblico alla manifestazione, nel tempo ha saputo conquistare un ruolo di prestigio, diventando un simbolo di partecipazione e di passione condivisa per il cinema.
Quest’anno, la giuria del premio - organizzato come sempre da Ugo Brusaporco e Arminio Sciolli - ha motivato così la scelta di premiare Carla Juri: «Attrice che, di interpretazione in interpretazione, cresce nella dimensione attoriale, toccando una invidiabile maturità. Carla Juri ha accompagnato nella sua crescita anche questo premio che nel suo venticinquesimo la vuole ringraziare. Un nuovo punto di partenza nel nome di un premio e di un festival che rende grazie a Locarno e a cittadini come lei».
Una identità plurale
Cresciuta in una famiglia bilingue italo-tedesca, Juri ha trasformato la propria identità plurale in una risorsa artistica. Dopo essersi formata tra Zurigo, Los Angeles e Londra, ha vinto due volte il riconoscimento ufficiale del cinema svizzero, il Quartz, e, nel 2013, a Locarno, il premio come miglior attrice per Feuchtgebiete, di David Wnendt. Quattro anni dopo è stata diretta da Denis Villeneuve in Blade Runner 2049, continuando poi a muoversi con disinvoltura tra cinema d’autore e grandi produzioni internazionali. Il Ticino, però, resta la base da cui ripartire: «Mi dà energia per tornare fuori nel mondo. Ho bisogno delle radici per potermi rinnovare», dice.
Partecipare al Festival, per Juri, non è soltanto una tappa professionale, ma un’occasione per ritrovare il contatto diretto con il pubblico e con il ritmo unico di Locarno. «Essere qui in concorso è un privilegio che vivo con gratitudine - sorride - Ma ciò che apprezzo di più è poter tornare a far parte, anche solo per qualche giorno, di questa comunità». In Donkey Days, Carla Juri veste i panni della madre della protagonista nei flashback della giovinezza, quando ancora non era madre. Un ruolo che le ha permesso di raccontare il personaggio da una prospettiva diversa, lontana dagli stereotipi materni, e di esplorare le fragilità e i desideri che precedono la maternità.
«Il film è diventato la mia vita reale - racconta - Tutto era così vero che non ho nemmeno fatto il parallelo con la mia vita fuori dal set. Interpretare una madre prima che lo diventasse davvero mi ha fatto riflettere sul fatto che, nella vita, spesso i gesti che lasciano un segno sui figli non sono intenzionali. Poveri genitori, succede. E, nonostante la cura e l’amore, c’è sempre una parte di imprevedibilità, di mistero, che appartiene alle relazioni familiari».
Una regola professionale sorprende chi la incontra: non rivedere i propri film subito dopo l’uscita. «Magari lo farò a 70 o 80 anni, quando sarò meno critica con me stessa e saprò vedere solo i lati positivi. Adesso, preferisco risparmiarmi certi pensieri».
Una scelta che nasce dal desiderio di non lasciarsi influenzare: «Quello che vivi sul set, e tramite il personaggio, non lo vedi mai completamente sullo schermo, e forse è giusto così». Guardando ai ragazzi che sognano una carriera nel cinema, scorge un contesto mutato: «Sotto certi aspetti, oggi è più facile. Il mondo è più piccolo, i giovani sono più connessi. Spero abbiano il coraggio di rischiare, di fallire, perché è così che si cresce». E anche quando un progetto non trova subito il suo pubblico, non lo considera un fallimento: «Ci sono film che non hanno avuto successo immediato e sono diventati classici col tempo. La società cambia e riconosce altro. È il bello del cinema: non c’è mai una fine, ogni fine è un inizio».
Durante la conversazione, cita un nome che l’affascina profondamente: Alberto Giacometti. «Mi colpisce la sua capacità di dare forma a qualcosa di essenziale, spogliando tutto il superfluo. Nelle sue figure allungate sento la tensione e la fragilità che appartengono anche agli esseri umani che interpreto. Nei suoi lavori ritrovo la stessa attenzione alla composizione che cerco in una scena: la possibilità di racchiudere un mondo intero in pochi tratti. Guardare una sua scultura è come fermarsi su un’inquadratura che non ha bisogno di parole».
Negli ultimi anni ha scelto di bilanciare set e vita familiare: «Ho voluto dedicare tempo alla mia famiglia, e questo arricchisce anche il mio lavoro. Ogni esperienza personale aggiunge profondità alle interpretazioni». Con Donkey Days, appena presentato, due film in post-produzione e altri in fase di sviluppo, il futuro si annuncia denso di progetti. Ma il Locarno Film Festival, con la sua Piazza e i suoi incontri, resta un porto sicuro: «Qui sento le mie radici, e so che da qui posso sempre ripartire».
Gli altri vincitori
Oltre al Boccalino d’Oro speciale per Carla Juri, la giuria indipendente ha premiato come miglior film Tales of the Wounded Land (Libano) di Abbas Fahdel, «epica cronaca e testimonianza ineludibile di fronte al tribunale della Storia» che racconta il destino di un popolo alle prese con la barbarie della guerra, opponendo la cultura e la vita alla distruzione.
Il Boccalino per la miglior regia è andato a Fabrice Aragno per Le Lac (Svizzera), un’opera che rilegge lo sguardo dei fratelli Lumière senza dimenticare l’ironia di Méliès, intrecciando una storia di vela con paesaggi, città, treni e momenti di intimità familiare.
Il premio per la miglior attrice è stato assegnato a Katia Pascariu per Sorella di Clausura (Romania/Serbia/Italia/Spagna) di Ivana Mladenović, con una motivazione che ne elogia la verità interpretativa e la capacità di illuminare il film con umorismo e autenticità.
Il riconoscimento per il miglior montaggio è andato a Joseph Krings per Rosemead (USA) di Eric Lin, apprezzato per aver dato continuità e profondità a un racconto doloroso, con un lavoro capace di evocare l’idea polifonica di montaggio teorizzata da Sergej M. Ejzenštejn.
Il Boccalino per la miglior fotografia è stato vinto da Nicolas Graux per Tóc, giấy và nước... (Belgio/Francia/Vietnam), girato in 16 mm, una scelta coraggiosa e narrativa che restituisce allo spettatore un linguaggio visivo raro e sorprendente.
Il premio per il miglior contributo al linguaggio cinematografico è stato attribuito a As Estações (Portogallo/Francia/Spagna/Austria) di Maureen Fazendeiro, definito «un saggio visivo capace di far percepire il flusso perenne e diversificato della vita attraverso ciò che spesso consideriamo solo paesaggio».
Un premio speciale è stato assegnato a Daniele Jorg per l’eccezionale contributo dato nel tempo alla crescita del Festival di Locarno e dello stesso Boccalino d’Oro.
Infine, un altro premio speciale della giuria per Dry Leaf, di Alexandre Koberidze, «film grandioso, epico e poetico, moderno e antico al tempo stesso... l'umanità che trionfa nella bellezza del suo essere».