«Barry Lyndon», 50 anni di una grande tragedia umana

Il 18 dicembre 1975 usciva nelle sale americane Barry Lyndon, il decimo dei tredici lungometraggi di Stanley Kubrick. Un film nato parzialmente da un precedente fallimento, poiché il regista si interessò all’idea di una pellicola in costume dopo aver cercato a lungo, e invano, di portare sullo schermo la vita di Napoleone Bonaparte (da qualche anno, ultimamente, si parla della possibilità di adattare quel soggetto specifico, sulla base dei materiali di Kubrick, come miniserie televisiva).
Leggendo le opere dello scrittore inglese William Makepeace Thackeray (autore del classico La fiera delle vanità), egli individuò il progetto giusto nella storia delle «fortune» di Redmond Barry, un affascinante arrampicatore sociale irlandese attivo nella seconda metà del Settecento, i cui tentativi di ascendere hanno ripercussioni gradualmente sempre più tragiche (spesso accompagnate dalla famosa rielaborazione strumentale della Sarabanda di George Frideric Handel).
Un progetto sontuoso e mastodontico, non senza difficoltà, tra cui l’apparente mancanza di intesa tra Kubrick e il protagonista Ryan O’Neal, il quale fu un’imposizione della Warner Bros. con l’intenzione di migliorare il destino commerciale del film (i cui incassi furono comunque deludenti, il che spinse in parte il regista a puntare sull’horror per il suo lungometraggio successivo, che divenne Shining, mentre O’Neal non ebbe più ruoli con lo stesso peso per il resto della vita).
All’epoca un discreto insuccesso al box office, fu anche, come sempre nel caso di Kubrick, divisivo a livello di critica, con alcuni che lo elogiavano mentre altri si interrogavano per l’ennesima volta sulla presunta freddezza del lavoro del cineasta (un dettaglio che Martin Scorsese, vent’anni dopo, ricorderà nel suo fluviale documentario Viaggio nel cinema americano, dove definisce Barry Lyndon uno dei film più toccanti che lui abbia mai visto).
Rivisto oggi, nella splendida versione restaurata che uscirà al cinema nel 2026 dopo aver conquistato il pubblico di eventi come Cannes e il Festival Lumière a Lione, è ancora più sbalorditivo e incantevole il lavoro fatto dal regista insieme al direttore della fotografia John Alcott, una collaborazione fatta letteralmente a lume di candela per gli interni, senza luci elettriche, creando con apposite lenti un’estetica simile a quella dei quadri settecenteschi, e non per niente quella qualità quasi pittorica valse al film uno dei suoi quattro Oscar (gli altri tre furono per le scenografie, le musiche e i costumi, questi ultimi a cura di Milena Canonero).
Spiace solo che a godere di questa nuova vita di uno dei capolavori del cinema americano degli anni Settanta non ci sia colui la cui vita cambiò radicalmente grazie al film: Leon Vitali, l’interprete di Lord Bullingdon (figliastro e nemesi di Barry), che sul set legò con Kubrick al punto da diventarne l’assistente personale su tutti i progetti successivi fino alla morte del regista nel 1999 (nel postumo Eyes Wide Shut appare anche come interprete dell’inquietante leader di una setta), dopodiché fu il principale supervisore della longevità delle sue opere, controllandone i restauri e accompagnandoli in giro per il mondo prima di spegnersi a sua volta nel 2022.