Serie TV

Copenhagen Cowboy: la vendetta femminile secondo Refn

La recensione della serie TV Netflix firmata dal regista danese Nicolas Winding Refn
Michele Montanari
19.01.2023 18:37

Nicolas Winding Refn è un brand a tutti gli effetti: fa un genere, il «neon noir», che è solo suo, ha uno stile riconoscibilissimo e si firma semplicemente NWR. Dopo il maestoso e mastodontico Too old to die young, uscito su Prime Video nell’indifferenza generale del grande pubblico, il regista danese torna alla serie TV indossando la casacca di Netflix. Intendiamoci, Refn non è cambiato di una virgola, nonostante la distribuzione (dallo scorso 5 gennaio) sulla piattaforma di streaming per eccellenza. Niente compromessi e niente logiche commerciali delle grandi serie TV.  Copenhagen Cowboy è un'opera totalmente inadatta ad una vasta platea. Prendere o lasciare. Nel suo nuovo lavoro, l'autore di Drive segue la strada già tracciata con il silenzio metafisico e le allegorie di Valhalla Rising, Solo Dio PerdonaToo old to die young (che alla fine è un filmone di 13 ore); e con l'ossessione per la moda patinata, ma orrorifica, di The Neon Demon. Copenhagen Cowboy è un western metropolitano fuori dal tempo e dallo spazio. È la vendetta del genere femminile secondo Refn, che torna in patria per demolire il marcio - leggasi il maschio - in Danimarca. La personificazione della distruzione degli uomini (che privano le donne della vita, corrompendole, sfruttandole come schiave o uccidendole) è Miu (Angela Bundalovic), ragazza minuta, vestita tutta di blu, silenziosa, aliena e abilissima nel kung fu. È impossibile non vedere in lei la Sposa in tuta gialla di Kill Bill (quindi Bruce Lee), anche se Tarantino e Refn sono due mondi agli antipodi. Dove da una parte regnano il dialogo e le molte soluzioni registiche, dall’altra ci sono solo silenzio e stasi.

Il cinema di Refn è stilosissimo e ultra-pop, ma non popolare (non può e non vuole piacere a tutti). È voyeurismo compiaciuto, saturo di luci al neon rosse, blu e violette (ormai la sua firma). Nelle sue opere dominano lunghissime inquadrature, impensabili nell’epoca dei brevi video sui social. Il danese questa volta si supera e abusa di panoramiche a 360 gradi di una lentezza pachidermica: lo spazio viene esplorato nella sua interezza; gli ambienti, curatissimi e illuminati, diventano frame di opere d’arte, contorni per personaggi immobili, surreali e gelidi. Sembra di assistere a tableau vivant di una sfilata di moda in cui non esistono emozioni (un episodio si apre con una disturbantissima rivisitazione dell'Ultima Cena di Leonardo da Vinci). Il cineasta cita David Lynch nelle atmosfere mistery alla Twin Peaks, e ci catapulta in una storia oscura e incompleta, che potrebbe benissimo avere un seguito, come finire con l’enigmatica immagine dei «Giganti» evocata dal game designer Hideo Kojima (Refn e l’artista giapponese hanno collaborato per il videogioco Death Stranding). Copenhagen Cowboy è grottesco (gli uomini sono maiali, letteralmente), disturbante, sovrannaturale e violento fino al body horror di David Cronenberg. Le musiche, dal synth-pop anni 80 sino ai suoni più cupi, sono affidate al solito eccellente Cliff Martinez, con cui il regista collabora dai tempi di Drive. Copenhagen Cowboy è un maiale che dopo essersi rotolato negli escrementi nasconde il lerciume indossando un vestito di Prada (non a caso Refn collabora con la nota casa del lusso). C’è del marcio in Danimarca. Elegantissimo, ma morbosamente conturbante. Come l'amore deviato di un figlio per la madre.

Voto: 9/10.