Scenari

E se Hollywood si trasferisse in Arabia Saudita?

Dopo la Cina, il Qatar e gli Emirati Uniti, un altro Paese «scomodo» sta investendo nel cinema statunitense: perché?
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Marcello Pelizzari
22.02.2023 10:00

Decine di celebrità del cinema hollywoodiano. A Gedda, in Arabia Saudita. No, non è l’inizio di una barzelletta. È la (nuova) realtà del grande schermo, a immagine del Red Sea International Film Festival tenutosi proprio a Gedda lo scorso dicembre. Qualche nome? Oliver Stone presidente della giuria, Spike Lee, Antonio Banderas e Andy Garcia ospiti d’eccezione in alcuni panel, e ancora Joel Kinnaman, Michelle Rodriguez e Henry Golding. Per tacere di Bruno Mars, esibitosi nella serata di apertura.

Ricca, ricchissima di petrolio, e allo stesso tempo desiderosa di rifarsi un’immagine nei salotti occidentali, l’Arabia Saudita sta investendo, e molto, nella cosiddetta cultura pop. Non solo nello sport, ma anche – come ha spiegato Bloomberg – nel cinema. Soprattutto nel cinema, verrebbe da dire, pensando ai nomi citati. E pensando agli incentivi, va da sé generosi, offerti a registi e studios americani per girare in loco. Sì, in Arabia.

Che cosa è cambiato?

Quello che, fino a poco tempo fa, pareva impossibile è diventato, appunto, realtà. Sembrano lontane, anzi lontanissime le reazioni all’omicidio del giornalista Jamal Khashoggi, approvato dal principe ereditario Mohammed bin Salman: all’epoca, nessuno voleva il denaro dell’Arabia Saudita. Nessuno. Tempo e necessità, per dirla con Bloomberg, hanno però cambiato, un poco alla volta, l’orizzonte degli stessi studios e delle compagnie di produzione, perennemente a caccia di fondi per fare cinema. Compagnie il cui unico interesse, in fondo, è che un determinato progetto veda la luce. Il perché di tempo e necessità è presto detto: da una parte, fonti più tradizionali – come la Cina – hanno limitato e di molto gli investimenti all’estero di aziende e cittadini; dall’altra, l’aumento dei tassi di interesse ha reso più costoso (e complicato) raccogliere denaro da finanziatori negli Stati Uniti e in Europa. Tradotto: come (e dove) li trovo i soldi per fare un film?

L’ingresso, massiccio, dell’Arabia Saudita nel mercato cinematografico non sorprende. Né fa sollevare troppo il sopracciglio a chi, teoricamente, dovrebbe tirar fuori questioni etiche e morali. Non sorprende anche perché Paesi vicini, come il Qatar, da tempo sono in partita sul fronte della cultura pop tipicamente occidentale. Doha, tramite il suo fondo sovrano, ha investito in Miramax. Mubadala, il fondo emiratino, ha invece investito nel catalogo musicale di Michael Jackson. Tanto il Qatar quanto gli Emirati stanno cercando, inoltre, di mettere le mani su alcune franchigie della NBA.

Il caso cinese

C’è chi, ha sottolineato Bloomberg, intravede un possibile paragone fra le attuali strategie dei Paesi del Golfo e ciò di cui fu capace, a suo tempo, la Cina. Desiderosa di estendere la sua influenza sulla scena globale, Pechino investì pesantemente nell’industria cinematografica. Sia costruendo sale, sia – soprattutto – investendo in società di media statunitensi e finanziando direttamente molti blockbuster hollywoodiani. Nel giro di pochi anni, il Dragone è diventato il secondo mercato cinematografico più importante al mondo dopo quello americano. Hai detto poco. Con un risultato, tuttavia, sgradito a Hollywood stessa: già, perché oggi i film cinesi hanno soppiantato quelli statunitensi al botteghino mentre il governo – visto anche l’attuale clima geopolitico – è decisamente meno aperto a «far entrare» titoli stranieri. Tradotto bis: la Cina ha usato Hollywood, facendo convogliare nel Paese capacità e soldi, copiando le capacità degli americani e, poi, cacciando tutti al momento opportuno. Secondo i produttori statunitensi, l’Arabia, il Qatar e gli Emirati si comporteranno in maniera diversa. Ovvero, non «useranno» Hollywood per poi disfarsene una volta imparato il mestiere.

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