«Fare cinema in Israele oggi significa cercare la verità in un mondo che crolla»

Ci sono film che nascono per spiegare, altri per lasciare aperti spazi di interrogazione. Some Notes on the Current Situation, l’ultima opera di Eran Kolirin, appartiene a questa seconda categoria: un insieme di sei episodi in bianco e nero che si posano sulla realtà come annotazioni marginali, oblique, lasciando che sia lo spettatore a colmare i vuoti. Presentata fuori concorso in prima mondiale al Locarno Film Festival, è una «tragicommedia filosofica» interpretata da un gruppo di studenti di recitazione di Tel Aviv, girata in soli tredici giorni con mezzi ridotti e libertà assoluta.
Kolirin, già autore de La banda (2007) e Let It Be Morning (2021), non ha mai nascosto il suo impegno politico. Negli ultimi anni si è espresso pubblicamente contro la politica del governo Netanyahu, firmando una petizione internazionale per chiedere sanzioni a Israele e la fine del conflitto a Gaza. Lo abbiamo incontrato dopo la proiezione della prima mondiale a Locarno: la conversazione ha toccato il film, certo, ma soprattutto il ruolo dell’arte in un Paese attraversato da una crisi profonda.
È la sua seconda volta a Locarno, ma la prima con un film in
programma. Che impressione le ha fatto la reazione del pubblico alla visione?
Non lo so davvero. I registi non sanno mai se il pubblico ha
amato o meno il film. Si cammina tra la gente, si colgono impressioni, ma non
si hanno certezze. Posso dire che per me Locarno è un luogo speciale: non ha la
frenesia di altri festival, c’è tempo per parlare e ascoltare. È un crocevia
tra Italia e Francia, un contesto che favorisce il dialogo, e questo per me è
prezioso.
Il film ha una struttura insolita: sei episodi in bianco e
nero, con un cast ridotto che interpreta più ruoli. Da dove è nata questa
scelta?
È nato quasi per caso. Un amico, direttore di una scuola di
recitazione, mi ha proposto di fare il film di diploma per una classe di
studenti eccezionali. All’inizio ho esitato: c’erano pochissimi soldi e tempi
strettissimi. Poi ho deciso di provare. Ho scritto per loro, sapendo già chi
sarebbero stati gli attori e quali luoghi avremmo avuto a disposizione. Così ho
scelto ambienti ridotti, una troupe minima, un cast di cinque persone che
potessero interpretare ruoli diversi. Il bianco e nero è arrivato naturalmente:
semplifica, elimina distrazioni, concentra l’attenzione su volti e gesti. E poi
ogni regista ha diritto a un film in bianco e nero nella vita… questo è il mio.
Nonostante la leggerezza apparente, il film è profondamente
legato al contesto in cui vive. Lei ha detto più volte che oggi fare cinema in
Israele è sempre più difficile.
È così. Negli ultimi due anni ho la sensazione che tutto
stia crollando. È un periodo di transizione verso qualcosa che non so cosa
sarà, ma che non mi sembra positivo. C’è paura, c’è rabbia, e un clima che non
favorisce la creazione artistica. Se commetto l’errore di aprire le notizie la
mattina, finisco per non riuscire a scrivere nulla: resto seduto a fumare,
pensando alla morte. Eppure, proprio in momenti così, il bisogno di esprimersi
diventa urgente. A volte è l’unico spazio di libertà che resta: scrivere,
girare, creare. Forse è proprio in questo che si trova la verità dell’arte.
Negli ultimi anni sembra esserci la pretesa che un artista
debba sempre dichiarare apertamente la propria posizione. Lei come vive questa
pressione?
È una tendenza che sento molto. Oggi sembra che, qualunque
cosa tu faccia, tu debba spiegarla, giustificarla, dire se sei «a favore» o
«contro» qualcosa. Io credo invece che un’opera possa contenere già in sé una
posizione, senza proclami. Non mi interessa fare dichiarazioni che rischiano di
essere fraintese o ridotte a slogan: preferisco che il film parli da solo. È
un’esperienza, non un volantino politico. Se lo spettatore esce dalla sala e ha
capito qualcosa di più – o anche solo ha percepito un’emozione nuova – allora
il dialogo c’è stato, e questo per me basta.
Si sente libero di parlare di tutto nei suoi film?
Dipende da cosa intendiamo per «libertà». Esiste sempre uno
Stato, esistono sempre persone che ascoltano, giudicano, reagiscono. Non
viviamo in un vuoto. Quindi bisogna trovare un linguaggio che permetta di
comunicare davvero, anche in un contesto ostile. Io non faccio proclami nei
miei film: racconto storie, creo situazioni in cui il pubblico può percepire
quello che non viene detto esplicitamente. In questo senso, la libertà è anche
la capacità di aggirare le barriere.
Molti vedono in «Some Notes on the Current Situation» un
film politico, ma non nel senso tradizionale. È d’accordo?
Sì, se per «politico» intendiamo un’opera che nasce in un
momento di crisi e lo riflette, pur senza parlarne direttamente. Non è un film
su Gaza, ma sul nostro sguardo, su come viviamo dentro un Paese che sta
cambiando radicalmente. Io credo che l’essere umano venga prima di ogni
etichetta nazionale o religiosa: per questo non mi interessa tanto raccontare
«gli israeliani» o «i palestinesi», ma gli esseri umani. E farlo anche
attraverso l’assurdo, il grottesco, perché a volte la realtà stessa sembra teatro
dell’assurdo.
Lei ha parlato di questo progetto come di un ritorno a un
cinema «artigianale».
Esatto. Girare con pochi mezzi, senza pressioni di mercato,
è stato liberatorio. Ho montato io stesso alcune parti, ho scelto ogni
dettaglio senza dover convincere produttori o distributori. È un film fatto con
le mani, come una bottega artigiana. Questo mi ha dato una libertà artistica
che raramente si ha in produzioni più grandi. E mi piacerebbe poterla rivivere
in futuro, anche se so che in Israele oggi non è semplice.
Qual è la sua speranza per chi vedrà questo film?
Non voglio dare messaggi. Il cinema non è il modo giusto per
trasmettere slogan: è troppo lento, troppo soggetto a interpretazioni.
Piuttosto, spero che lo spettatore esca dalla sala e guardi il mondo in modo
leggermente diverso, anche solo per qualche minuto. Magari con meno rabbia,
meno violenza, e un po’ più di consapevolezza di esistere.
Ha già un nuovo progetto in mente?
Ho delle idee, ma la priorità è capire se ci sarà lo spazio
per realizzarle. Il paradosso è che proprio in un momento in cui fare arte è
più difficile che mai, sento più che mai la necessità di farla. Non so se in
Israele riuscirò ancora a girare come vorrei, ma di una cosa sono certo:
continuerò a cercare storie e immagini che parlino della nostra umanità, anche
quando tutto intorno sembra volerla cancellare.