«Father Mother Sister Brother», quando il cinema lascia spazio a tempo, gesti e relazioni umane

Il nuovo film di Jim Jarmusch, Father Mother Sister Brother, vincitore del Leone d’Oro, rappresenta un’idea di cinema che lascia spazio al tempo, ai gesti e alle relazioni umane. Una pellicola che esplora con profondità la complessità dei legami familiari, dove ogni silenzio è pieno di significato. È proprio a Venezia che lo abbiamo incontrato.
«Per me, il silenzio è fondamentale. Spesso, ciò che non viene detto comunica più di qualsiasi parola. Trovo che ci sia una musica in questo: le note non suonate permettono di dare vita a quelle che suonano. Molti anni fa, quando viaggiavo in Giappone, tornavo sempre a casa con valigie piene di VHS di film giapponesi, inaccessibili in America: Mitsuguchi, Naruse, Ozu, Kurosawa, Oshima. Li guardavo senza sottotitoli. Con Ozu e Mitsuguchi, in particolare, mi accorgevo che riuscivo a percepire quasi tutto emotivamente, anche senza capire le parole. Le emozioni risiedevano negli sguardi, nei gesti, nei silenzi che intercorrono tra le scene, in ciò che non viene detto. Ricordo di aver visitato la tomba di Ozu a Kamakura, sulla quale è inciso il solo ideogramma Mu, che significa assenza, vuoto: lo spazio tra le cose. È un modo straordinario per esprimere ciò che resta non detto. In fondo, molte delle cose che non pronunciamo sono, in realtà, quelle che abbiamo già detto senza parole».
L’idea di questo film è rimasta con lei a lungo prima di trasformarsi in sceneggiatura. Come nascono i suoi film?
«In realtà, raccolgo solo le idee iniziali, che non arrivano mai in un ordine preciso. Non so mai esattamente cosa ne farò. Colleziono piccoli spunti e li registro in un quaderno o dove capita. Poi, col tempo, cominciano a prendere forma e a diventare più chiari. Spesso parto dagli attori: penso a qualcuno per cui voglio creare un personaggio, o magari a un luogo. In questo caso, la prima immagine che mi è venuta in mente è stata quella di Tom Waits come padre di Adam Driver. Poi ho pensato a Mayim Bialik. E così la storia ha cominciato a farsi strada. È un processo un po’ misterioso, che cresce lentamente, finché tutto non trova il suo posto».
Father Mother Sister Brother, come Night on Earth (1991) e Coffee and Cigarettes (2003), è strutturato in capitoli. Come riesce a trovare l’equilibrio giusto tra le diverse parti del film?
«Questo film è diverso da Night on Earth e dagli altri. Forse, in un certo senso, è più misterioso, ma in termini di struttura ci ho lavorato moltissimo, perché volevo che ogni elemento si costruisse con gradualità. Credo che l’ultimo capitolo, visto da solo, non avrebbe lo stesso impatto emotivo. Ogni scena è stata pensata per contribuire a questa costruzione, passo dopo passo. Ci vuole un lavoro enorme per far sembrare tutto naturale. Se qualcuno vedesse i capitoli separati, mi sentirei mortificato, e gli direi che non si tratta del mio film».
Nei suoi film la poesia sembra sempre essere più che una presenza narrativa: c’è nei ritmi, nelle ripetizioni, negli spazi tra le parole. In questo film, pur non essendo così evidente come in Paterson, il suo ruolo emerge in modo sottile.
«La poesia non è come la prosa, che è densa di parole; ha degli spazi che, visivamente, acquisiscono un’importanza propria. In questo senso, è simile a ciò di cui parlavamo prima: gli spazi tra le cose. La poesia ha strofe, che introducono pause visive, come respiri o momenti musicali. È più astratta della prosa, e i suoi silenzi ne fanno parte. Per me è fondamentale, i miei punti di riferimento sono i poeti della New York School: Kenneth Koch, con cui ho studiato, David Shapiro, Frank O’Hara, John Ashbery, James Schuyler, Anne Waldman, Ron Padgett. La loro poesia si fonda sul manifesto che Frank O’Hara scrisse nel 1959, Personism, in cui dice che qualsiasi cosa tu faccia, una poesia, un dipinto, devi farla per una persona. Non per il mondo, non come una dichiarazione universale, ma per qualcuno, come se dicessi stavo pensando a te».
In che modo Father Mother Sister Brother esplora la complessità dei legami familiari?
«Penso che, come dice Adam Driver nel film, non possiamo scegliere la nostra famiglia. Possiamo scegliere i nostri amici e i nostri amanti, ma la famiglia è qualcosa che ci viene dato. In fondo, tutti noi abbiamo una famiglia, che sia presente o distante, o forse che abbiamo perso. Ma non è questo il punto. Non voglio trasmettere un messaggio preciso, piuttosto mi interessa osservare come siamo tutti un po’ segnati, in modi diversi, e come le nostre vite si intrecciano, che si tratti di genitori, figli o amici. Siamo tutti imperfetti, e per questo non voglio giudicare nessuno. Il mio obiettivo è solo guardare le persone con delicatezza, senza fare troppe semplificazioni. Non mi piacciono gli archetipi, non sono il mio stile. Non voglio creare personaggi unidimensionali. Per me, la variazione è la vera bellezza: ogni piccola differenza ci rende unici. Trovo problematico quando cerchiamo di rinchiudere tutto in categorie rigide. Siamo tutti dannatamente diversi, e quella diversità è ciò che dovremmo celebrare, non cercare di controllare».
La musica nei suoi film non è mai mero sfondo, ma è sempre dosata con attenzione. Per lei, arriva prima delle immagini o si sviluppa in relazione al film?
«Di solito, quando scrivo, ho già in mente la musica, e spesso creo playlist che mi guidano nel processo. Questa volta è stato diverso: il film sembrava non richiedere musica. Poi, dopo le riprese, ho sentito che qualche suono ci stava, ma senza un punto di vista chiaro. Ho creato una musica malinconica e minimale, con frammenti delicati, come nuvole che passano. Insieme al montatore, Affonso Gonçalves, abbiamo scelto di non sovrastare il film, ma di accompagnarlo, con la mia chitarra elettrica e il il suono del piano Wurlitzer che ho registrato mentre improvvisavo».
Tra i brani della colonna sonora c’è una nuova versione di These Days di Jackson Browne, composta da lei insieme ad Anika, che si ispira alla celebre interpretazione di Nico. Com’è nata questa reinterpretazione?
«La versione che amo di più di quella canzone è quella di Nico, quindi ho deciso di crearne una nuova, cercando di imitarla. La registrazione che abbiamo fatto a Berlino aveva una strumentazione simile all’originale, registrata quando Jackson Browne aveva vent’anni. È una canzone bellissima, ricca di saggezza. Alla fine, però, ho deciso di rimuovere quasi tutta la musica, aggiungendo solo qualche accenno di chitarra per distaccarla dalla versione di Nico e darle un tocco più astratto».
Tom Waits è un volto ricorrente nel suo cinema da quasi quarant’anni, fin dai tempi di Daunbailò (1986). Com’è nato il vostro rapporto?
«Sono un suo grande ammiratore, insieme abbiamo vissuto esperienze incredibili. Ci siamo incontrati per la prima volta nel 1985, a una festa organizzata da Basquiat, che era un mio amico. Quella notte siamo rimasti svegli fino all’alba, passando da un club all’altro di New York. Da allora siamo diventati amici e lo siamo ancora. Non so esattamente cosa ci sia dietro questo legame, ma lo rispetto profondamente e so che anche a lui piace trascorrere del tempo con me. Qualche mese fa mi ha chiamato dicendomi che stava scrivendo una nuova biografia su di me, e la prima cosa che mi ha letto era una mia descrizione, scritta proprio alla sua maniera. La prima frase diceva: “Penso che Leavenworth (uno storico carcere americano, ndr) abbia fatto bene a Jim. Lì ha imparato a smontare e rimontare una radio”. È chiaramente un ritratto immaginario, eppure sorprendentemente accurato nella sua astrazione. Mi conosce davvero bene».