«Fellini? Era di famiglia, lo chiamavo "zio Federico"»
Giona Nazzaro ce lo aveva anticipato: «Ci tengo molto che il nome di Renzo Rossellini entri a far parte della storia del Festival di Locarno». Questo desiderio è diventato realtà ieri sera in Piazza Grande, con la consegna del Life Achievement Award all’oggi ottantunenne produttore de La città delle donne, poi proiettato in seconda serata. Un riconoscimento ancora più significativo, poiché è il primo che gli viene assegnato in campo cinematografico.
Regista a sua volta, come produttore ha lavorato, oltre che con Fellini, anche con nomi del calibro di Werner Herzog, Lina Wertmüller e Francis Ford Coppola e, come aiuto regista, tra gli altri, con il padre Roberto, François Truffaut e Claude Chabrol. Purtroppo Renzo Rossellini è giunto a Locarno in condizioni di salute non ideali (si sposta su una sedia a rotelle, fatica ad articolare le parole) e durante l’incontro che ha tenuto con la stampa è stato il figlio Alessandro (anche lui attivo nel cinema come regista e sceneggiatore e autore tra l’altro del documentario The Rossellinis) a completare il suo pensiero e ad approfondire le sue riflessioni. Qui di seguito il resoconto di questa peculiare, e per molti versi commovente conversazione.
Nel suo libro su Fellini, Tullio Kezich cita
una sua frase: «Non c’era Papa abbastanza grande per Michelangelo, non c’è
produttore abbastanza grande per Fellini». Come si è svolta la vostra
collaborazione su La città delle donne?
«Poter lavorare con Fellini era un’occasione
particolare per me, perché lo chiamavo zio, ho cominciato a frequentarlo da
piccolo a casa di mio padre e quindi è come se facesse parte della mia famiglia.
Da una parte quindi c’era questo legame d’intimità, mentre dall’altra avevo a
che fare con un regista molto esigente da tutti i punti di vista, anche da
quello economico. Federico del resto, come tutti i registi, aveva i suoi metodi
per manipolare i produttori. Ogni giorno arrivava a Cinecittà in metropolitana
e io dovevo andare a prenderlo alla stazione. Durante il tragitto in auto fino
allo Studio 5, ogni volta aveva una richiesta. Iniziava col dire: ho fatto un
sogno… Ho fatto un sogno di costruire un grande scivolo… E ogni suo sogno
costava centinaia di milioni di lire, ma come potevo dire di no al regista dei
sogni?».
Tra i tanti film che lei ha distribuito con
successo c’è stato 9 settimane e ½ di Adrian Lyne (1986): com’è cambiata
secondo lei l’immagine della donna e della sessualità al cinema negli ultimi
decenni? Allora c’era più libertà e ora c’è più pudicizia?
«Diciamo che c’è stato un periodo in cui si
poteva essere, nel bene e nel male, maschilisti mentre oggi vigono le regole
del politically correct ed è nato giustamente un movimento come MeToo. I
rapporti tra gli uomini e le donne sono cambiati completamente. Comportarsi da
gentlemen non è più ben visto: aprire le
porte alle signore, fare il baciamano, le cose che faccio io insomma, non si fanno
più perché la donna non è più il sesso debole. E tutto ciò è cambiato anche al
cinema. Io, come tutti gli uomini nati negli anni Quaranta, mi rendo conto di avere una visione del
femminile molto poco contemporanea ma capisco queste nuove visioni della donna
che si trovano nei film di oggi mi pare
molto corretta. Non c’è però molta comprensione per chi, come me, ha una
cultura diversa alle spalle. E questo
vale anche per mio padre, un uomo modernissimo che ha fatto delle scelte molto
profilate in questo ambito. Basti
pensare al suo rapporto con Anna Magnani,
un’attrice che ha avuto una carriera molto importante anche a livello
internazionale senza appoggi particolari; o a quello con Ingrid Bergman, una
femminista ante litteram capace di abbandonare Hollywood per venire in Italia».
Da questo punto di vista come vede oggi La
città delle donne?
«È difficile immaginare cosa direbbe oggi
Federico Fellini, ma il film mi pare un’autocritica molto forte da questo punto
di vista. Dentro la storia di ogni film c’è sempre molto da scoprire».
Nel 1962 lei ha diretto il suo unico film di
fiction: l’episodio italiano della coproduzione internazionale L’amore a
vent’anni. Che esperienza è stata?
«Avevo davvero vent’anni allora e si trattava
di raccontare quel particolare periodo storico, soprattutto per ciò che
riguarda i rapporti tra uomini e donne. Il film però è stato molto criticato e
non ha avuto molto successo».
Qualche anno fa lei si era espresso molto
criticamente sulla scarsa attenzione che era stata dedicata a un importante
anniversario che riguardava suo padre. Questo malcostume ha coinvolto purtroppo
anche altri grandi registi italiani: come vede questa tendenza?
«Ho dedicato gran parte dei miei ultimi anni
di lavoro a occuparmi dell’opera di mio padre Roberto Rossellini. Non solo per ciò che riguarda i
suoi film, ma anche per cercare di concludere la sua enciclopedia umanistica
che stiamo cercando da tempo di rendere accessibile su qualche piattaforma.
Credo fortemente nella visione dell’uomo trasmessa da mio padre e soprattutto
nella missione della promozione della cultura. Purtroppo si tratta di una cosa
per cui non c’è più alcuno spazio nell’Italia di oggi. E ciò è molto grave».
Lei è sempre stato un uomo molto impegnato
politicamente ed è stato anche un produttore cinematografico: qual è il suo
punto di vista sugli scioperi attualmente in corso ad Hollywood?
«Beh, parliamo della suddivisione non di
milioni, ma di miliardi di dollari che non arrivano nelle tasche di chi
lavora».
Come produttore qual è stata la sua relazione
con i registi con cui ha collaborato?
«Sono
sempre stato innamorato dei progetti che ho prodotto e quindi anche dei loro
creatori, delle loro idee. Ho sempre considerato l’aspetto economico del mio
lavoro secondario rispetto alla qualità dei film. Ero pronto a indebitarmi pur
di rispettare la visione del regista e penso che oggi siano ben pochi i
produttori italiani pronti ad indebitarsi, anche perché i film si costruiscono
in modo molto diverso rispetto ai miei tempi».