«Il mio film vuole ridare voce a una donna poco ascoltata»

Non è un classico lungometraggio biografico bensì il ritratto di una eccezionale donna e scrittrice durante uno dei periodi più difficili e inquieti della sua esistenza. Con Mario Martone, incontrato all’ultimo Festival di Cannes dove Fuori era in concorso, abbiamo parlato della genesi del suo ultimo film, ora nelle nostre sale.
Quanto ha contato nella scelta della sua protagonista, Goliarda Sapienza, il fatto che fosse un personaggio «scomodo», mal visto anche dall’establishment culturale del suo tempo?
«Goliarda Sapienza era una ribelle, uno spirito libero, non seguiva le opinioni della maggioranza. Esattamente ciò che faceva a quel tempo Pier Paolo Pasolini, ma con la differenza che Pasolini era un uomo e lei una donna che neppure veniva ascoltata. Credo che questo aspetto conti: lei era sicuramente una scrittrice scomoda, non adatta per i salotti intellettuali. Però il fatto di essere stata così ignorata allora, come ben si vede nella sequenza di una trasmissione di Enzo Biagi di cui è ospite che ho inserito alla fine del film, fa sì che meritasse di essere riportata in vita».
Nella sua scelta di Valeria Golino quale interprete di Goliarda Sapienza quanto ha contato il fatto che le due donne si fossero conosciute?
«Dal momento in cui ho iniziato a pensare a questo film, l’ho immaginato con Valeria Golino come protagonista. Quando ho saputi che Valeria stava lavorando a L’arte della gioia (miniserie tv tratta dal romanzo di Goliarda Sapienza di cui la Golino è co regista ma non attrice: ndr.) è stata una circostanza completamente magica perché sono due pensieri che si sono incrociati, non seguiti. D’altra parte, era noto che il regista Citto Maselli chiamasse Goliarda per fare da coach alle attrici con cui lavorava nei suoi film e che tra queste ci fu anche Valeria, così come Nastassja Kinski o Ornella Muti».
Nel suo film è in primo piano il rapporto tra donne molto diverse tra loro che passano del tempo insieme senza fare granché: com’è riuscito a portare efficacemente sullo schermo questa atmosfera?
«La sceneggiatura, che ho scritto insieme ad Ippolita Di Majo, era molto ricca di dettagli riguardo a queste relazioni al femminile e abbiamo avuto la fortuna di trovare l’amore da parte di queste tre attrici che l’hanno capita perfettamente. Valeria Golino, Matilda De Angelis ed Elodie sono tre donne di grande carisma, di grande talento, di grande bellezza ma lo spettacolo straordinario sul set per me è stata la loro intelligenza. Era quello che consentiva a tutto questo di diventare vero. Ho avuto il privilegio di entrare in un luogo dove altrimenti come uomo è molto difficile entrare: i momenti in cui le donne sono tra loro».
Fuori è un film su una donna ma anche su una scrittrice, sulla vita ma anche sulla letteratura: come si pone quando deve portare sullo schermo un personaggio con questa «doppia identità»?
«Mi aiuta il fatto di aver girato molti film su artisti. Mi piacciono gli artisti, perché trovano il modo di rispondere al disagio esistenziale che viviamo tutti. Ovviamente questo non succede solo agli artisti: ognuno di noi viene salvato dalla propria capacità di immaginazione ma l’artista rende questa salvezza comune, collettiva. Una domanda che mi ero già posto quando ho fatto il film su Leopardi (Il giovane favoloso del 2014: ndr.) è la seguente: quando le parole della scrittura devono essere pronunciate nel film? Nel caso di Leopardi far entrare le sue poesie nel film è stato un processo molto delicato e anche qui lo è stato. A un certo punto si sentono le parole de L’arte della gioia ma per farlo, prima devi creare lo spazio affinché queste parole diventino cinema».
Una dimensione che ha contribuito a creare quell’incredibile senso di intimità tra i personaggi che si respira durante tutto il film?
«Questa intimità si è creata nel rapporto con le parole. I dialoghi sono letteratura e c’è da dire che Goliarda Sapienza è stata attrice prima di essere scrittrice. I dialoghi quindi sono i dialoghi di qualcuno che ha recitato ma sono letterari. Noi li abbiamo adattati e le attrici erano assolutamente dentro questa scrittura e l’hanno resa viva con l’interpretazione».
Il suo film si svolge nella Roma del 1980, non una città né un anno qualsiasi: la città che mostra è perlomeno insolita mentre tra le righe del film si parla anche di politica. Come ha equilibrato tutti questi elementi?
«Il film è paragonabile a un ritratto: ci sono delle figure in primo piano e poi c’è un orizzonte. Su questo orizzonte c’è la città di Roma, c’è la politica del tempo, ci sono i personaggi maschili. Ho cercato di disegnare un orizzonte molto preciso, molto definito, anche se lontano. Chiaramente non volevo che la politica prendesse un peso eccessivo nel film, ma non volevo nemmeno che i riferimenti fossero troppo generici. E sono proprio questi elementi sullo sfondo a dare forza al ritratto. Penso ad esempio al fatto di aver girato dentro il carcere di Rebibbia. È stato un lavoro lungo e difficile, ma ci siamo riusciti. Le tre attrici hanno conosciuto e hanno parlato con le detenute. E alla fine hanno recitato insieme a loro. È stato qualcosa di fondamentale per le attrici e per il film, non solo per la verità che queste donne hanno portato, ma anche perché hanno dato la possibilità a Matilda e a Elodie di specchiarsi nelle loro condizioni. Senza questa esperienza non sarebbe stato lo stesso film».
