Il potere e la società davanti al corpo delle donne: Miguel Ángel Jiménez e la libertà di scegliere

Miguel Ángel Jiménez arriva a Locarno con l’aria di chi si gode ogni istante: risate facili, sguardo vivo, una gentilezza che mette a proprio agio. La sua solarità non cancella la gravità dei temi che lo muovono; al contrario, li illumina. Mentre parla di The Birthday Party, sembra di sentire un’eco mediterranea dentro il brusio di Piazza Grande: un’isola anni Settanta, glitter e squali, affetti e interessi che si annodano nello stesso gesto.
«Uno dei modi di dire che più mi ha colpito in Italia» sorride «è che la strada per l’inferno è lastricata di buone intenzioni. Marcos, il mio protagonista, vive esattamente così: convinto di agire per amore, ma di un amore che ha al centro sé stesso». È un armatore che apre la sua residenza per il compleanno della figlia Sofia: la festa è un palcoscenico, il brindisi un contratto implicito, la musica copre il rumore dei ricatti.
Per raccontarlo, Jiménez chiama in causa le icone: «È un uomo alla Onassis, e qualcuno può vederci un’eco del Don Corleone di Coppola. Il Padrino è uno dei miei film preferiti: lì c’era un codice morale, seppur dentro un’attività criminale indiscutibile; in Marcos il confine fra bene e male è talmente sfumato da rendere impossibile distinguerli».
È qui che il film tocca la società di oggi. «Nel film tutti usano tutti, ma sulle donne il controllo è più brutale» dice il regista. «Il corpo, le scelte, la libertà diventano oggetto di trattativa. Marcos arriva a imporre una decisione che riguarda la maternità di sua figlia. Siamo negli anni ’70, eppure il paradosso è che oggi, in molti Paesi, quella libertà di scelta è ancora negata. L’aborto non è una questione d’epoca: ogni volta che un legislatore, un giudice o un padre si arroga il diritto di decidere per una donna, la storia si ripete». L’isola diventa così un laboratorio di potere: dietro l’eleganza degli invitati, il controllo dei corpi femminili è l’ultima frontiera della prevaricazione.
Jiménez intreccia quel microcosmo con il clima di un’epoca: «Mi interessava il 1975: la Grecia che vota la nuova Costituzione, la Spagna alla fine del franchismo, un mondo in cui gli uomini forti prendono decisioni che toccano le vite di tutti». Non è nostalgia storica, ma un richiamo alla persistenza del gesto: il patriarcato che cambia parole ma non logiche, il capitalismo che chiede consenso e insieme lo ingabbia. «Spero che questo capitalismo si ammorbidisca» confida.
La festa del film è un dispositivo morale. Le apparenze promettono comunità, ma è solo superficie. I saluti, i regali, le fotografie: tutto è transazione. Quando la questione tocca l’autonomia di Sofia, la patina cede. The Birthday Party mostra la genealogia della prevaricazione: non l’errore di un singolo, ma un sistema che usa l’amore come alibi.
Sul set, questa ambiguità si traduce in rigore. Jiménez racconta di aver disegnato in anticipo i movimenti di ogni scena: «In un film di ensemble la verità sta spesso sullo sfondo: chi ascolta, chi evita uno sguardo, chi si ferma un secondo in più accanto a un vassoio».
Il cuore pulsante è l’incontro con Willem Dafoe. «Non recita: abita il presente. Ti sta accanto, vede tutto, restituisce ciò che il set gli offre. Con lui l’istante diventa vivo, e devi esserci anche tu». Ne nasce un personaggio che sfugge alle etichette e costringe lo spettatore a riconoscere sé stesso nella zona grigia del potere.
La proiezione a Locarno restituisce al regista un contrappunto umano. «Durante lo screening sono sceso in fondo alla Piazza. Anche senza sedia, alcune donne guardavano il film sedute a terra. Alla fine ho visto una coppia abbracciarsi, lei piangeva. Non so se fosse dolore o liberazione, ma ho capito che la storia aveva toccato qualcosa di vero». È la stessa frattura che attraversa molte vite femminili: conciliare desideri, lavoro e maternità in un contesto che ancora oggi limita la possibilità di scelta.
Nelle parole di Jiménez c’è un invito a spostare lo sguardo: non importa solo «chi ha ragione», ma «chi decide per chi». La famiglia diventa alibi del potere; la posta non è solo il denaro, ma la sovranità del corpo e il diritto di scegliere, senza che l’amore si trasformi in imposizione.
«Vorrei non essere un’ombra pesante per i miei tre figli» aggiunge. «Per amore, a volte, controlliamo troppo. Chiamiamo protezione quello che è paura. È un amore che può soffocare». Il film diventa così anche un gesto personale: riconoscere la tentazione del controllo per disinnescarla.
A fine conversazione, il regista torna alla sua allegria naturale. Ringrazia per l’accoglienza, ricorda la presentazione in cui la leggerezza del gruppo quasi stonava con la serietà del film e guarda già alla distribuzione. Ma l’ultimo pensiero è per il pubblico: «Sotto gli abiti eleganti siamo tutti nudi» dice Marcos nel film, e Jiménez lo lascia come monito. In Piazza Grande, per una notte, la risposta non era scritta sullo schermo: passava di mano in mano, come un bicchiere alla festa di Marcos, e cambiava sapore a ogni sguardo.