Jackie Chan, il guerriero gentile che ha insegnato a Locarno la disciplina dell’entusiasmo

C’era un calore speciale, ieri sera, in Piazza Grande. Non solo quello dell’afa agostana che ha avvolto Locarno e il Sopraceneri negli ultimi giorni, ma soprattutto quello che si sprigionava dall’attesa: ordinata, compatta, inondata di magliette rosse e poster sollevati al cielo. Lì dove un anno fa l’arrivo del divo di Bolliwood Shah Rukh Khan aveva scatenato un’onda di entusiasmo quasi febbrile, la folla aveva stavolta il respiro lungo e la pazienza della disciplina orientale. Aspettava, infatti, Jackie Chan, figura leggendaria capace di attraversare le culture e i generi cinematografici come un acrobata che non perde mai l’equilibrio.
Quando l’attore di Hong Kong, oggi 71.enne, è comparso sul tappeto rosso - due panda di peluche stretti tra le braccia - la piazza si è mossa come un’onda lieve, senza mai sfociare nel caos. Non ha mantenuto distanze, non si è limitato a passare: si è fermato, ha sorriso, ha firmato autografi, ha concesso selfie. Ha fatto saltare la scaletta del Festival, ma nessuno sembrava infastidito: c’era, in quell’apertura, un’eco di filosofia confuciana, la cortesia come fondamento dell’arte di vivere. L’attenzione verso l’altro - anche quando questo comporta un ritardo - è diventata parte stessa dello spettacolo.
Sul palco, il direttore artistico Giona A. Nazzaro lo ha celebrato come «regista, produttore, attore, sceneggiatore, coreografo, cantante, atleta, stuntman temerario», e come colui che ha saputo fondere arti marziali e tempi comici in un linguaggio universale.
Chan ha risposto con un aneddoto intimo: una conversazione con il padre, cuoco, che un giorno gli chiese se a sessant’anni avrebbe ancora saputo combattere. «Oggi ne ho settantuno - ha detto - e posso ancora farlo». Poi ha aggiunto, in italiano, un «Ti amo!» seguito da una cascata di baci verso la platea, come se stesse ringraziando uno per uno tutti i presenti.
I ricordi d’infanzia
A differenza della passione disordinata che l’anno prima aveva accompagnato Khan, qui il pubblico ha mostrato un rispetto quasi rituale, interrotto solo dal fragore che, poco dopo, si è riversato fuori dalla piazza. Centinaia di persone hanno seguito Chan nelle vie laterali per intercettarlo ancora una volta, lasciando la proiezione avvolta da un silenzio improvviso, rotto soltanto dalle urla dei fan in lontananza: un’immagine sospesa, da cinema neorealista, nella quale la narrazione ufficiale e quella parallela si intrecciano.
Come dodici mesi fa, anche questa volta il Pardo ha assistito a un esodo in piena regola, segno che per molti l’incontro con il mito era più importante del film stesso.
La mattina dopo, durante la conversazione con il pubblico al Grand Rex, Chan non si è risparmiato. Il suo non è stato il «compitino» di chi deve solo onorare la presenza, ma un racconto a cuore aperto, intriso di umorismo e nostalgia. Ha parlato di quando, bambino, fu mandato alla China Drama Academy; di un’educazione «dura come il bambù», fatta di allenamenti all’alba, esercizi interminabili e regole ferree. Ma anche di come quell’addestramento lo abbia temprato e reso curioso di tutto: non solo recitare e combattere, ma imparare le luci, il montaggio, il canto, per non dipendere mai da nessuno. «Se vuoi essere un vero regista - ha detto - devi sapere fare tutto».
La partita con Bruce Lee
Ha riso ricordando la partita di bowling con Bruce Lee, e si è fatto serio parlando delle solitudini e delle assenze, dei nastri che la madre gli spediva dall’Australia e che oggi, dice, non riesce più a ritrovare.
Lampeggiava commozione, il suo sguardo, come se quei ricordi fossero ancora vivi nella memoria muscolare di chi, per decenni, ha messo il corpo al servizio del cinema.
C’è, nella sua parabola, qualcosa di profondamente cinese: l’idea della «gongfu» non solo come tecnica marziale, ma come applicazione costante, perfezionamento continuo in ogni gesto. Così, dopo essere stato stuntman invisibile, ha preso il controllo creativo dei suoi film, diventando autore totale. Ha studiato Buster Keaton e i musical classici, cercando di dare al corpo in movimento la precisione di una coreografia e il respiro di una gag. Ha voluto togliere volgarità alle commedie e violenza gratuita alle scene d’azione, puntando a un cinema che potesse parlare a tutti, bambini compresi. In questo, c’è anche un significato sociologico: Chan rappresenta un’idea di intrattenimento globale che non rinuncia alla propria identità culturale. Nei suoi film c’è sempre un equilibrio tra spettacolo e integrità, tra l’azione spettacolare e la lezione morale. È una qualità che a Locarno si è percepita nella sua interazione con il pubblico: calorosa, ma misurata; generosa, ma priva di eccessi. Un modo di vivere la popolarità che contrasta con certi modelli occidentali e che, probabilmente, ha contribuito a mantenere la piazza, piena in ogni ordine di posto come da previsioni (e polemiche) della vigilia, compatta e ordinata.
Il Pardo alla carriera, allora, non è stato soltanto un tributo alla longevità, ma al ponte culturale che Chan ha costruito tra Oriente e Occidente, tra il rigore di un addestramento millenario e la leggerezza del sorriso. Un ponte che, a Locarno, ha retto il peso di una piazza gremita, eppure composta, capace di attendere, esultare, inseguire, e infine conservare l’impressione di aver vissuto un incontro che, come in certi suoi film, resta nella memoria non solo per il colpo di scena, ma per la grazia del gesto.
E forse il segreto sta proprio lì: nella consapevolezza che ogni apparizione, ogni stretta di mano, ogni inchino può diventare una scena memorabile, se vissuta con sincerità. Jackie Chan lo sa da sempre, e al Locarno Film Festival lo ha ricordato a tutti: l’arte marziale più potente è, in fondo, l’arte di restare umani.