«La Piazza per me è un tempio del cinema»

È un veterano di Piazza Grande il regista losannese Jean-Stéphane Bron, protagonista di una memorabile serata nel 2013 con il suo documentario L’expérience Blocher. Quest’anno, oltre a presentare nella sezione Fuori Concorso il film Le chantier (sulla costruzione di un cinema), è l’ospite principale del lunedì sera con i primi due episodi della miniserie The Deal (gli altri quattro verranno presentati martedì pomeriggio). Un progetto ambizioso della RTS e di Arte France, basato sui veri trattati per il nucleare in Iran che furono negoziati a Ginevra una decina d’anni or sono. Ne abbiamo parlato con Bron proprio nei pressi di Piazza Grande.
Perché proprio
questa premessa per il suo debutto seriale?
«Volevo fare una
serie, cercavo un soggetto che si addicesse a quel formato. Volevo che fosse
una storia locale, ambientata in Svizzera francese, ma con una dimensione
internazionale. Nel momento in cui mi sono ricordato degli accordi a Ginevra
tra il 2013 e il 2015, l’argomento mi ha subito conquistato. Poi è stato un
processo lavorativo piuttosto lungo, è durato sette anni. Quindi doveva essere
una premessa in grado di appassionarmi e credo faccia parte del mio DNA, mi è
sempre piaciuto raccontare i retroscena, quello che accade a porte chiuse».
In questo caso
c’è anche la dimensione thriller. Una volta scelto l’argomento, com’è arrivato
alla struttura della miniserie?
«Ho avuto la
fortuna di lavorare con un gruppo di sceneggiatori, non ce l’avrei mai fatta da
solo. Ciascun membro del gruppo ci ha messo del suo. La componente thriller è
stata un’evoluzione naturale perché c’erano tutti gli ingredienti giusti, forse
non nella realtà ma nella versione che noi abbiamo voluto raccontare: c’è
l’obiettivo da raggiungere, c’è il tempo limitato, hanno dieci giorni per
concludere l’accordo, costi quel che costi. Eravamo dei pescatori che
lanciavano le reti e abbiamo raccolto vari aneddoti su situazioni politiche che
potevamo adattare nel contesto della serie».
Diversi registi
svizzeri hanno diretto delle serie negli ultimi anni. Com’è stata quella
transizione?
«Mi è piaciuto
molto il ritmo diverso. Quando faccio un documentario ci vuole tempo, a volte
giro un’inquadratura al giorno, mentre in questo caso erano necessari
quattro-cinque minuti di materiale al giorno. Mi piaceva anche avere cinque ore
a disposizione per seguire questi personaggi a cui sono legato, come se fosse
un lungo film».
A tal proposito,
con Play Suisse chi vuole può vedere i sei episodi in un unico blocco. Venire
dal mondo del cinema ha aiutato a trovare una struttura che, pur rispettando
l’individualità degli episodi, possa invogliare il pubblico a guardare cinque
ore di seguito?
«Quello è un
aspetto tecnico della serialità ed è stato utilissimo lavorare con delle
persone che avevano già scritto altre serie e quindi avevano quell’esperienza
che a me mancava. Con Alice Winocour (co-creatrice del progetto e
collaboratrice regolare di Bron, n.d.r.) siamo stati attenti al tono e al
ritmo, lei mi ricordava in continuazione di mantenere costante il ritmo. Gli
altri sceneggiatori hanno contribuito con i dettagli strutturali: tre linee
narrative per episodio e come chiudere ogni puntata. Tre settimane prima
dell’inizio delle riprese ho poi riscritto il tutto per tagliare alcune scene,
sempre per questioni di ritmo».


Ci sarà la
possibilità di vedere la serie settimanalmente, in chiaro sulla RTS, o tutta
insieme su Play Suisse. Lei che modalità preferisce?
«Io inizio a
guardarne molte, di serie, e se ce n’è una che mi prende davvero mi ci tuffo.
Sono in grado di guardare una stagione intera, o quasi, in due nottate. Poi
devo dire che, come per i film, tendo a guardare le serie molto dopo l’uscita,
quando non c’è più il polverone mediatico. Per fare un esempio, ho visto Mad
Men per la prima volta qualche mese fa, dieci anni dopo la messa in onda
dell’ultimo episodio. Ho guardato le sei stagioni nell’arco di due settimane.
Ho amato il suo lato politico e il fatto che parla di un uomo infelice che
vende felicità».
Ci sono delle
serie a cui si è ispirato per The Deal?
«A livello
formale, Succession. L’ho vista tre volte, la prima come spettatore, la seconda
concentrandomi sulla scrittura, la terza per l’aspetto formale, l’uso dei
diversi stili di ripresa a seconda delle scene. E poi Esterno notte di Marco
Bellocchio, che ha uno stile classico che si contrappone all’estetica di
Succession, dove è molto presente la macchina a mano. Ci siamo detti che la
tensione all’interno della nostra serie sarebbe a metà tra quei due stili.
Fatte le dovute proporzioni, perché non sto cercando di paragonarmi a loro,
quelli erano i principali punti di riferimento».
È la prima volta
che una serie viene proiettata in Piazza Grande. Come si sente?
«È un grande
onore. La Piazza è un tempio del cinema, ho molte belle emozioni legate a quel
luogo. Ci sono stato con il mio primo film, quando avevo 28 anni, ed è sempre
emozionante avere tutti quegli occhi che guardano la tua opera».
The Deal è anche
molto attuale: si parla di Israele, Palestina, Netanyahu. Dieci anni dopo è
cambiato poco o nulla.
«E noi abbiamo
iniziato a lavorarci quando Trump è uscito dall’accordo, nel 2018. È strano, la
serie è ambientata nel 2015, ma è quasi un’utopia per domani».
Farà un’altra
serie dopo questa esperienza?
«Ho un’idea,
tematicamente simile, sempre ambientata in Svizzera ma con implicazioni
internazionali, forse anche globali. Ma non posso scendere nei dettagli»
E una docuserie?
Mi piacerebbe
molto. Ho apprezzato quello che Netflix ha fatto sulla Formula 1, per esempio,
e fare una serie per una piattaforma con un target globale sarebbe bello. Ma al
momento non ho un’idea per un progetto simile.