Flee

La vita negata di Amin, rifugiato afghano

Il documentario d’animazione del regista danese Jonas Poher Rasmussen sfrutta in modo ideale questa particolare forma narrativa per raccontare una vicenda drammatica dagli insospettabili risvolti che finiscono con il condizionare l’esistenza del protagonista
Un’immagine del personaggio di Amin nel film realizzato con la tecnica dell’animazione 2D. / © Final cut for real/Filmcoopi
Antonio Mariotti
02.04.2022 06:00

Flee ha stabilito un curioso record in occasione della recente edizione degli Oscar. Pur tornatosene a casa a mani vuote, il lungometraggio del regista danese Jonas Poher Rasmussen era candidato in ben tre categorie: miglior film internazionale, miglior film d’animazione e miglior documentario. Una triade finora inedita soprattutto perché il documentario interamente costituito d’animazione è ancora merce rara. Impossibile non ricordare il capostipite, Valzer con Bashir realizzato nel 2008 dall’israeliano Ari Folman, e nel suo piccolo Chris the Swiss (2018), opera prima della regista svizzera Anja Kofmel. Se infatti l’animazione è diventata un supporto spesso indispensabile per «ricostruire» scene reali di cui non esiste alcuna documentazione filmata, affidarsi totalmente a questo genere cinematografico in ambito documentario è ancora l’eccezione e necessita di un’ottima motivazione, anche per questione di costi. Rasmussen questa motivazione l’ha trovata nella ritrosia da sempre dimostrata da un suo caro amico di adolescenza (nome di fantasia: Amin Nawabi) giunto in Danimarca oltre una ventina d’anni orsono dal natio Afghanistan e che oggi è un affermato ricercatore accademico in apparenza perfettamente integrato nella società d’adozione. Il regista (che ha alle spalle una lunga esperienza di documentarista radiofonico) ha così registrato nel corso degli anni una serie di lunghe interviste nelle quali Amin racconta, finalmente senza più segreti, la propria infanzia a Kabul, la scomparsa del padre all’arrivo al potere dei Talebani nel 1996, la momentanea fuga a Mosca insieme ai familiari, le sofferenze, le paure e il rocambolesco arrivo a Copenhagen. Sulla base di questa complessa testimonianza, che in certi momenti sfocia nei meandri dell’inconscio, è poi stato costruito il film grazie al lavoro di uno studio danese.

Il risultato è una cruda cronaca del percorso di un rifugiato proveniente da una zona di guerra (tema, ahinoi, di estrema attualità) ma anche e soprattutto il ritratto di una persona che si porta dietro dei traumi profondi che gli impediscono di vivere appieno la propria esistenza. Primo fra tutti la negazione della propria famiglia, come consigliatogli dal passatore senza scrupoli che gli ha fornito il biglietto aereo per la Danimarca, per evitare problemi con le autorità. Il maggior merito di Flee è quindi quello di far emergere alla luce del sole una vita negata per decenni. Un esempio, tra milioni, di come dietro il drammatico percorso di un rifugiato si possano nascondere segreti indicibili. Alla fine, Amin trova il coraggio per mettere radici e porre così fine a un lungo vagabondaggio iniziato quando dovette abbandonare per sempre la sua casa di Kabul.

Regia di Jonas Poher Rasmussen. Documentario (Danimarca 2021).