Cinema

Land of Dreams: il sottilissimo limite che separa sogni e realtà

Le note artiste iraniane Shirin Neshat e Shoja Azari con lo sceneggiatore francese Jean-Claude Carrière ci trasportano nel cuore della provincia americana
© Cineworx
Antonio Mariotti
28.01.2023 06:00

Mettete insieme due artiste di fama internazionale nate in Iran ma in esilio volontario negli Stati Uniti fin dagli anni Settanta, che in passato hanno già flirtato con il cinema (Donne senza uomini, 2009) e uno dei più grandi sceneggiatori europei del XX secolo, la cui penna è sempre stata intrisa nell’inchiostro dell’ironia e del surrealismo, conosciuto in particolare per la sua collaborazione con Luis Buñuel insieme al quale ha scritto ben sei lungometraggi. Fate compiere a questo terzetto molto ben assortito un viaggio - metaforico o reale, poco importa - nel cuore dell’America profonda di oggi, in bilico tra totale smarrimento e rigurgiti nazionalisti e razzisti. Il risultato potrà essere per certi versi oscuro e insondabile ma non mancheranno di certo le sorprese e i guizzi di fantasia. E ciò soprattutto se i tre personaggi coinvolti rispondono al nome di Shirin Neshat, Shoja Azad e sopratutto di Jean-Claude Carrière. Per quest’ultimo, scomparso nel febbraio del 2021 all’età di 89 anni, Land of Dreams si iscrive come il capitolo finale di un’eccezionale carriera, comprendente tra l’altro tre nomination agli Oscar per altrettanti film di Buñuel, una statuetta per il miglior cortometraggio vinta nel 1962 per il suo Heureux anniversaire e un Oscar alla carriera consegnatogli nel 2015.

Una donna fuori dal comune

In effetti, la protagonista del film, Simin, interpretata con la giusta dose di enigmaticità dalla brava Sheila Vand, è una giovane donna d’origine iraniana del tutto fuori dal comune, introversa, misteriosa, apparentemente priva di sentimenti ma con alle spalle una storia dolorosa. Impiegata dell’Ufficio federale del censimento in una sperduta cittadina della provincia USA (il film è girato nel desertico New Mexico), in un futuro molto vicino al nostro presente, per lavoro gira nei quartieri residenziali, ponendo agli intervistati le domande di routine ma anche chiedendo loro di raccontarle l’ultimo sogno che hanno fatto. Sono le donne le uniche a fornire a Simin delle risposte e ciò l’aiuta, una volta rientrata a casa, a trovare dei travestimenti grazie ai quali entra nei panni delle sue interlocutrici, riproponendo i loro racconti davanti a una telecamera tradotti in lingua persiana (il farsi) prima di postarli sui social media del proprio Paese d’origine dove Simin può contare su migliaia di followers. Attorno alla giovane ruotano due uomini: il mite e innamoratissimo Mark (William Moseley) che la segue ovunque, e Alan (un ottimo Matt Dillon), guardia del corpo messole alla calcagna dalla capufficio per proteggerla, spaccone, chiacchierone ed estremamente simpatico. Una coppia che Simin cerca di tenere a bada il più possibile ma che si trasforma poco a poco nell’incarnazione dello spirito americano: sognatore e al tempo stesso rozzo, fiducioso nel futuro ma anche incapace di vedere al di là del proprio naso.

L’arte come chiave di lettura

Tra incontri improbabili con personaggi strambi (come la Jane interpretata da una svampita Isabella Rossellini), momenti in cui il paesaggio e il contesto dove si svolge il film si confonde con l’Iran dei ricordi (la scena della «colonia» segreta) e momenti in cui la pratica artistica si propone come il miglior modo di interpretare una realtà complessa e imperscrutabile (bellissima la scena finale in cui Simin compie una vera e propria performance nel deserto), Land of Dreams mantiene per tutti i suoi 113 minuti un fascino arcano e un’atmosfera leggermente sopra le righe. Non un’opera che ci parla della realtà ma piuttosto un’opera surreale. Con tutti i suoi pregi ma anche qualche perdonabile difetto. 

Shirin Neshat. Nata in Iran nel 1957, Shirin Neshat si trasferì negli Stati Uniti per frequentare l’università. Dopo essere tornata in patria nel 1990, l’artista rimane colpita dai cambiamenti causati dalla rivoluzione (1978-79), a seguito della quale furono emanate leggi secondo cui le donne potevano tenere scoperti solo il volto e le mani. Neshat sceglie allora di diventare un’artista per documentare la realtà e criticare le nuove regole, da lei considerate ingiuste. È del 2009 il suo primo film: Donne senza uomini, con il quale ha vinto il Leone d’Argento alla 66. Mostra di Venezia.