L’animazione e la mania del remake «dal vivo»

Tre mesi fa, l’insuccesso commerciale di Biancaneve aveva portato la Disney a sospendere la lavorazione di altri rifacimenti dei suoi classici d’animazione. Solo che poi è uscito Lilo & Stitch, che sta avendo il destino opposto, dimostrando ancora una volta come quella del remake non sia una scienza esatta. Un fenomeno che la Disney insegue da circa dieci anni, dopo i precursori che sono stati Alice in Wonderland (un seguito travestito da remake, poiché parla di un’Alice adulta che torna nel Paese delle Meraviglie) e Maleficent (rilettura de La bella addormentata nel bosco dal punto di vista della strega Malefica). A dare il via al fenomeno in maniera ufficiale è stato il Cenerentola di Kenneth Branagh che, come il successivo Libro della giungla di Jon Favreau, ha saputo individuare il giusto equilibrio fra rispetto per la fonte animata e volontà di spingersi in altri territori. Poi, nel 2017, La bella e la bestia ha segnato l’inizio di una nuova era, quella dei remake dei film del cosiddetto Rinascimento Disney (1989-1999), più aderenti al canovaccio originale soprattutto per quanto riguarda la componente musical. Ed è quell’elemento nostalgico, poco coraggioso, che si è rivelato ciò che il pubblico desidera di più. Difatti, nel 2019, Aladdin e Il re leone hanno incassato un miliardo di dollari a testa, mentre Dumbo è stato un fallimento di non poco conto (anche sul piano artistico, tant’è che il regista Tim Burton ha seriamente valutato l’ipotesi di ritirarsi dal cinema dopo quell’esperienza). Da lì, complice Disney+ che ha aperto le danze con la versione nuova di Lilli e il vagabondo, è nata una politica ufficiosa secondo cui i remake del Rinascimento (o di opere più tardive come Lilo & Stitch, uscito nel 2002), più facilmente sfruttabili anche a livello di merchandising, escono in sala (con l’eccezione di Mulan che è finito sulla piattaforma a causa della pandemia), mentre gli altri sono destinati alla fruizione in streaming (con l’eccezione di Biancaneve, che in questo caso ha avuto diritto al grande schermo per l’importanza storica del prototipo, il primo lungometraggio d’animazione realizzato in America).
E ora ci si mette anche la concorrenza, poiché la DreamWorks, in collaborazione con la Universal, ha da poco portato nelle sale Dragon Trainer, che riprende pedissequamente trama e stile della versione animata, riciclando anche uno degli attori (Gerard Butler, che in inglese era la voce del capo vichingo Stoick e torna a interpretarlo in carne e ossa, auspicando che nel già annunciato seguito torni Cate Blanchett nei panni di sua moglie). In questo caso rimane invariato anche il regista e sceneggiatore, Dean DeBlois, tornato all’ovile nonostante non ami particolarmente la pratica dei remake per un motivo molto semplice: dato che il film si sarebbe fatto a prescindere, ha preferito girarlo lui anziché rischiare che qualcun altro danneggiasse quella che è a tutti gli effetti la sua creatura. Grazie a lui l’operazione ha un minimo di sincerità, ma rimane il dubbio sulla necessità di rifare una trilogia fin troppo recente (i tre lungometraggi animati sono usciti tra il 2010 e il 2019), così come rimane la perplessità per i piani della Disney, che per il prossimo anno ha in cantiere un live-action di Oceania (l’originale, ricordiamolo, è del 2016), a quanto pare fortemente voluto da Dwayne Johnson - voce di Maui in originale -, la cui condizione di divo imbattibile al box office è in dubbio da diversi anni. Con il rischio di sminuire ulteriormente le prime versioni, alimentando il luogo comune sull’animazione come forma espressiva destinata solo ai bambini, mentre gli adulti vogliono rivedere questi personaggi interpretati da attori veri (o, nel caso de Il re leone e compagnia bella, animali digitali fotorealistici). Ma guai a cambiarli troppo, perché anche se non disegnati i film devono restare uguali, pena l’ira di chi è cresciuto (forse solo anagraficamente) con gli originali.