L'intervista

«Le nuove date del Festival? Sono necessarie, ma non faremo miracoli»

Direttore artistico del Locarno Film Festival dall’edizione 2021, Giona A. Nazzaro, nel corso dell’ultima assemblea ha ricevuto un mandato triennale che lo porterà ad essere alla guida della rassegna ticinese almeno fino al 2027
© CdT/Gabriele Putzu
Antonio Mariotti
06.08.2025 06:00

Direttore artistico del Locarno Film Festival dall’edizione 2021, Giona A. Nazzaro, nel corso dell’ultima assemblea ha ricevuto un mandato triennale che lo porterà ad essere alla guida della rassegna ticinese almeno fino al 2027, l’anno dell’ottantesimo. La nostra conversazione è partita proprio da questa prospettiva futura.

L’ottantesima edizione del Festival dovrebbe coincidere con il cambiamento di data da agosto a luglio. Al di là delle trattative in corso, dei ricorsi e quant’altro, ci può spiegare quali potrebbero essere i vantaggi, cinematograficamente parlando, di questa operazione?
«È molto semplice: l’industria cinematografica in agosto va in letargo. Fino a prima della pandemia, quindi fino al 2019-2020 c’erano comunque molte cose che continuavano a funzionare anche in agosto, quasi per forza d’inerzia, e quindi questa situazione non veniva percepita come tale. La pandemia ha avuto un forte impatto sulle società dell’industria cinematografica, sul modo di lavorare di quelle che sono rimaste attive, che si sono riconvertite, che sono confluite altrove. Nello stesso tempo abbiamo visto il Festival di Cannes ampliare il suo programma a dismisura, e la stessa cosa si può dire della Mostra di Venezia che quest’anno va in scena con un’edizione monstre che debutta già il 27 agosto. Quindi, iniziare un festival nel cuore del mese di agosto, al di là del fatto che rimane un festival importante, ci mette in una posizione di svantaggio rispetto a come l’industria cinematografica è andata ricollocandosi».

Quindi basta occupare dieci giorni del mese di luglio per migliorare questa situazione?
«Sì, ma ciò non significa che spostiamo le date del Festival e all’improvviso accadono i miracoli. Speriamo di poter realizzare questo spostamento già con l’80. nel 2027, affinché nell’arco di 3-5 anni si inizino a vedere i benefici. Quelle differenze che, come ha dimostrato la Mostra di Venezia nel corso degli ultimi anni sotto la guida di Alberto Barbera, sono il frutto di una consuetudine, della capacità di un luogo di offrirsi con una forma di interlocuzione affidabile che dura nel tempo. In agosto non è che non riusciamo a farlo, però sarebbe meglio per il Festival svolgersi a luglio. Uno dei benefici immediati potrebbe essere, ad esempio, quello di inserirsi nella coda degli ultimi film che escono nelle sale e riuscire ad accordarsi per il debutto di uno di essi in Piazza Grande. Se guardiamo all’ultima edizione completa di Locarno prima della pandemia, quella del 2019, questo era ancora possibile anche in agosto, ma oggi non lo è più. Il Festival di Locarno è parte dell’industria cinematografica e non possiamo non renderci conto di cosa si muove in questo ambito. Poi si può anche decidere di non cambiare nulla ma a un certo punto i membri della comunità cinematografica faranno delle scelte e si chiederanno se vale ancora la pena posare la valigia a Locarno fino a metà agosto per poi ripartire per Venezia dopo pochi giorni. Locarno è ancora tra i primi dieci festival più importanti al mondo, però bisogna porsi il problema dell’industria nella quale si opera e capire quali sono le trasformazioni nella gestione del tempo da parte di queste persone».

Spostarci a luglio ci permetterebbe di sposare le nuove esigenze dell'industria cinematografica

Si può dire che di questa strategia che punta ad avvicinare sempre più il mondo dell’industria cinematografica a Locarno faccia parte anche l’uso sempre più frequente della lingua inglese, che non è ben visto da tutti?
«La lingua inglese ha un valore d’uso: noi parliamo con persone che vengono da tutto il mondo e quindi per entrare in contatto rapidamente usiamo l’inglese. Si potrebbe ribattere che noi in Svizzera parliamo anche il francese, ma il francese - con tutto il rispetto per questa grande cultura - non ha lo stesso valore d’uso, così come non ce l’ha l’italiano. Ciò detto, io sono molto legato alla mia identità italofona: penso e scrivo in italiano. Poi alla fine la lingua che parliamo tutti è la lingua del cinema. E il cinema non parla inglese. Il cinema parla il nigeriano, l’arabo, il mandarino ma la gente del cinema per comunicare usa l’inglese».

La novità assoluta di Piazza Grande 2025 sarà la proiezione delle prime due puntate di una serie televisiva: The Deal del regista svizzero Jean-Stéphane Bron. Da cosa nasce questa scelta?
«Ho ricevuto una mail della produzione mentre ero in viaggio, mi hanno inviato la serie completa, ho visto il primo episodio, mi ha incuriosito e mi sono chiesto se anche il secondo riuscisse a mantenere altrettanto alta la tensione e alla fine ho visto tutti e sei gli episodi di seguito. E discutendo con i produttori mi è venuto spontaneo proporre di presentare le prime tre puntate in Piazza, che poi sono diventate due per motivi di durata. Quindi una sorta di finale aperto per far sì che la gente sia incuriosita e torni il giorno dopo a vedere le altre puntate. Conoscevo il lavoro di documentarista di Jean-Stéphane Bron e mi ha molto intrigato questo passaggio alla finzione senza passare dalla casella del lungometraggio per il cinema (in effetti Bron ne aveva già diretto uno nel 2006, Mon frère se marie, pure presentato in Piazza Grande: ndr). È una decisione nata soprattutto dal piacere, ma se ogni anno ci fosse una serie che funziona per Piazza Grande, perché no? Io ho sempre sviluppato il dialogo anche con Netflix o con Amazon, ma le serie hanno una vita tutta loro».

The Deal uscirà su PlaySuisse pochi giorni dopo la proiezione in Piazza Grande: un bel lancio per la SSR…
«Anche questo aspetto mi interessa, cioè il fatto che il Festival di Locarno entri a far parte di un contesto più ampio: significa uscire dall’isolamento, lasciarsi alle spalle l’idea di Locarno come rito aulico del cinema d’autore».

Sono molto curioso di rivedere «Shining» in Piazza Grande: sarà come scoprire un film mai visto prima

Quest’anno in Piazza Grande ben quattro film provenienti dal Festival di Cannes, tra cui la Palma d’oro e il Gran Premio della Giuria: Cannes rimane un punto di riferimento imprescindibile?
«Per forza di cose, non foss’altro che per la mole delle proposte. Il motivo per cui questi film si vedranno in Piazza Grande è che non tutti vanno a Cannes, non tutti li vedono e anche gli stessi professionisti ogni tanto si perdono qualcosa».

E tra questi titoli c’è anche un film italiano, Testa o croce
«Conosco il lavoro dei due registi - Alessio Rigo de Righi e Matteo Zoppis - e penso che incarnino uno dei fatti veramente nuovi del cinema italiano. Mi aveva colpito già il loro primo film, Belva nera, un documentario impossibile girato nell’alto Lazio sulla presenza di una pantera in libertà che però nessuno ha mai visto, e tutto ciò in poco più di mezz’ora. Da allora, con i due registi c’era questa battuta fra di noi: “Vi aspetto, perché tanto so che prima o poi girerete un western all’italiana” e così è stato».

Non ci sarà solo un western in Piazza Grande, ma anche un paio di thriller, un horror: un ritorno in forze del cinema di genere?
«Il cinema di genere non se n’è mai andato via, nemmeno da Locarno. Già ho qualche difficoltà con questo termine, perché per me il cinema è cinema. Io sono cresciuto al cinema: quando d’estate dalla Svizzera si tornava al paese di mamma e papà, il negozio di mio zio stava attaccato al cinema e appena mio padre voltava le spalle io mi infilavo al cinema, tutti mi conoscevano e lì ho visto tante cose che non avrei neanche dovuto vedere. Per me il cinema quindi è un momento di emancipazione, un momento di libertà, poi è stato attraverso la televisione che ho iniziato a sistematizzare le mie conoscenze. Appartengo ancora a quella generazione per cui la televisione ha fatto da cineforum grazie ai cicli della Rai presentati da critici come Claudio G. Fava, Vieri Razzini o Aldo Tassone. Da amante del cinema di genere, i miei grandi traumi cinematografici sono stati Sussurri e Grida di Ingmar Bergman, Medea di Pier Paolo Pasolini, Querelle di Fassbinder o Il fantasma della libertà di Buñuel. Quindi per me il cinema di genere è il cinema così come lo sono Bergman o Buñuel. Non vedo nessuna differenza».

E in tutto questo, Shining di Stanley Kubrick: com’è nata l’idea di questa riproposta?
«È nata dall’esigenza di occupare uno slot in seconda serata in Piazza Grande. Con i colleghi che si occupano della programmazione stavamo discutendo di varie possibilità, finché qualcuno ha detto: “Facciamo Shining” e da quel momento è sembrata la scelta giusta, l’unica possibile. Anch’io sono curioso di rivederlo sullo schermo della Piazza e in una copia 35 mm in perfette condizioni con i sottotitoli italiani che abbiamo fatto una gran fatica a rintracciare. Quindi “Rivediamolo insieme”, come si diceva un tempo, perché, anche se l’abbiamo visto cento volte, non appena ci sederemo lì in Piazza, ci renderemo conto di non averlo mai visto».

In «With Hasan in Gaza» vedremo una Gaza che non esiste più

Si può individuare un fil rouge che lega i 18 titoli del Concorso internazionale?
«Vedo il Concorso internazionale di Locarno 78 come un luogo estremamente vivace, vitale, che contiene gli oggetti più strani del Festival, mentre la cosa interessante è che tra i Cineasti del Presente ci sono tutta una serie di giovani registi che assumono con grande consapevolezza la responsabilità del raccontare, del prendere posizione. Trovo che queste due facce dei concorsi esprimano un’inquietudine molto interessante rispetto al tempo presente».

Domani pomeriggio, aprirà il Concorso internazionale il film palestinese With Hasan in Gaza di Kamal Aljafari: una scelta significativa...
«Conosciamo il regista da molto tempo per il suo lavoro che si muove tra documentario, cinema sperimentale e d’archivio. Mi è interessato soprattutto il fatto che questo suo film ci permette di ragionare su Gaza senza ricorrere alle immagini che vediamo ovunque e che non per questo devono essere nascoste. Il film racconta la storia della ricerca di una persona che il regista aveva conosciuto anni fa e poi perso di vista e quindi attraversiamo un territorio, quello della Striscia di Gaza, che oggi non esiste più. E mentre nel 2001 il regista filmava quelle immagini - per farne un documentario che poi non ha mai realizzato - inconsapevolmente filmava l’archivio di se stesso. Vediamo solo la vita quotidiana della popolazione di Gaza, ma attraverso di essa vediamo come le condizioni di segregazione e violenza nei loro confronti fossero già in atto da anni. È una sorta di archivio che nasce in diretta davanti ai nostri occhi».

Nella sezione Fuori concorso si trova invece l’unico film israeliano di tutto il Festival: Some notes on the Current Situation di Eran Kolirin....
«Sì, non è fuori concorso perché si tratta di un film israeliano, ma perché si tratta di un piccolo film a episodi che il regista - che vanta diverse selezioni anche al Festival di Cannes ed è anche uno dei firmatari dell’appello contro lo sterminio per fame a Gaza che chiede sanzioni pesantissime contro Israele - ha realizzato insieme a un gruppo di studenti ed è prodotto dall’Israel Film Fund, la cui indipendenza dal potere politico è sempre più in pericolo. Si tratta di un’opera surreale, improvvisata, ma è anche inquietantemente profetico; c’è un momento in cui vengono dette cose che sarebbero poi accadute mesi dopo. Ed è in questo film dove si vede all’opera l’opposizione tra giudaismo, cioè l’identità del popolo ebraico, e il sionismo che è qualcosa di molto diverso».

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