Lucy Liu: «Essere vulnerabili non è una debolezza»

Dai ruoli iconici in Kill Bill e Charlie’s Angels, fino alle più recenti interpretazioni in Presence e Red One, Lucy Liu ha costruito un percorso artistico unico, attraversando generi e decostruendo stereotipi. Giovedì sera, in Piazza Grande, ha ricevuto il Career Achievement Award e ha presentato Rosemead, il suo ultimo film, di cui è anche produttrice. Una pellicola che esplora con profondità una comunità spesso invisibile: la diaspora cinese nella San Gabriel Valley di Los Angeles.
Ispirato a una storia vera, Rosemead racconta la complessa relazione tra una madre gravemente malata e il figlio adolescente che vive con la schizofrenia. Un ruolo molto distante da quelli che l’hanno resa celebre. Lo considera un momento di svolta nella sua carriera?
«Credo di sì. Sono entrata nel mondo del cinema per recitare, ma i ruoli disponibili per un’attrice di origine asiatica sono spesso confinati a cliché: film d’azione, arti marziali, o personaggi secondari. Con Rosemead, invece, ho avuto l’opportunità di raccontare una storia vera, profondamente umana. Troppo spesso i ruoli che ci vengono proposti riflettono come gli altri ci vedono, più che ciò che siamo davvero. È un confronto continuo, perché ci si aspetta che restiamo dentro una cornice prestabilita. Per me è importante uscire da quella cornice, continuare a crescere, a esplorare. In un certo senso mi sono ritrovata nei film d’azione senza davvero sceglierli, ma oggi sento il bisogno e la responsabilità di andare oltre. E credo davvero che il mio ruolo migliore debba ancora arrivare».
Nel corso degli anni come ha visto cambiare le opportunità per le attrici di origine asiatica a Hollywood?
«Qualcosa è cambiato, ma il percorso resta pieno di ostacoli. Anche quando interpreto ruoli complessi, vengo comunque incasellata. Se il personaggio è forte, sono una “dragon lady”; se è vulnerabile, si torna allo stereotipo della geisha. Una donna forte è una donna forte, indipendentemente dalla sua etnia. Ma non funziona così. Il razzismo si infiltra anche nel linguaggio e nella percezione. Durante la pandemia, definire il virus “cinese” ha avuto conseguenze molto reali. Non è uno scherzo, quando il pregiudizio lo vivi sulla tua pelle».
Nel film il personaggio di Irene arriva a una decisione estrema: uccidere suo figlio. Cosa le ha fatto sentire che questa storia doveva essere raccontata?
«Penso che quella madre sia spinta da un amore profondissimo per suo figlio. Il suo gesto estremo non nasce dalla follia, ma da una disperazione assoluta, da un istinto di protezione. Per me, è una storia d’amore: dolorosa, imperfetta, ma profondamente umana. Viviamo in una società che ci chiede sempre di apparire forti, impeccabili. Ma la verità è un’altra. L’onestà, la vulnerabilità e il bisogno di aiuto sono reali, e troppo spesso tutto questo viene nascosto. Irene è sola, senza strumenti per affrontare quello che le accade. Credo che il suo gesto, per quanto estremo, sia nato da un atto di coraggio che, nelle sue intenzioni, avrebbe potuto cambiare il destino di suo figlio».
Il film affronta anche temi delicati e poco esplorati come la pressione sociale che vivono le comunità asiatiche negli Stati Uniti e il tabù legato alla salute mentale. In che modo queste realtà vengono rappresentate nella storia?
«L’enclave cinese di Rosemead è parte integrante della storia. Se la vicenda fosse stata ambientata altrove, sarebbe sembrata la storia di una donna isolata per motivi linguistici o culturali. Ma Irene condivide lingua e cultura con chi le sta attorno. Il suo isolamento è emotivo, non sociale. Aveva la possibilità di chiedere aiuto, ma non lo ha fatto. Non c’era un vero ostacolo culturale, ma un blocco interiore. E la donna che ha raccontato questa storia, nella realtà, è stata emarginata per aver rotto il silenzio. Senza di lei, questo racconto non esisterebbe».
Che tipo di dinamiche culturali ha voluto portare in superficie?
«Esiste ancora, spesso in modo implicito, l’idea che la comunità debba mostrarsi impeccabile. Ma la perfezione, alla lunga, è una trappola: ci irrigidisce e ci rende incapaci di affrontare i fallimenti. Nel film, la madre non è oppressa da pressioni esterne, ma da qualcosa di più profondo: la vergogna, la paura del giudizio, l’incapacità di condividere il proprio dolore. In molte comunità si tende a mostrare solo la superficie, come successo e apparente stabilità. Le difficoltà restano invisibili. Oggi qualcosa sta cambiando: le nuove generazioni si sentono più libere di parlare di salute mentale, ma per chi è cresciuto in contesti più rigidi, il tema resta ancora un tabù. E questo ha un costo. La pressione a sembrare felici può diventare insostenibile».
Il film riflette anche la complessità interne della comunità. Come viene rappresentata questa sfaccettatura?
«La diaspora asiatica negli Stati Uniti è estremamente sfaccettata. Un immigrato taiwanese o cantonese non si identifica automaticamente con me: sono cresciuta negli Stati Uniti, ma le nostre esperienze sono molto diverse. Rosemead mostra quanto sia difficile, soprattutto per la seconda generazione, comprendere il vissuto della prima. E nel caso della salute mentale, tutto si complica: non è qualcosa di visibile, ed è per questo che spesso viene negata o fraintesa».
Irene è un personaggio silenzioso, schivo, molto distante dai ruoli che l’hanno resa celebre. Come ha lavorato su questo aspetto?
«In realtà sono piuttosto introversa, e il personaggio di Irene mi è sembrato subito familiare. So cosa significa crescere senza capire bene l’inglese, sentirsi fuori posto, non riuscire a difendere mia madre quando veniva derisa per il suo accento. Quella sensazione mi è rimasta dentro. Anche se oggi mi sento più sicura, dentro sono ancora così. Quel dolore lo conosco bene, non solo come figlia, ma anche come bambina. Con Irene ho voluto portarlo in superficie, senza filtri. Penso che il suo coraggio sia anche la sua fragilità: chiedere aiuto fa paura, per il rischio di essere respinti o umiliati. Vorrei che questa storia non fosse vera. Ma se non lo fosse, forse nessuno ci crederebbe. Il dolore che racconta è reale, e quel gesto estremo nasce da una solitudine profonda. Proprio per questo ha valore: ci obbliga ad ascoltare. Abbiamo bisogno di creare spazi dove chiedere aiuto non sia un atto di debolezza».