Vita da Cannes

Panahi e l’inutile vendetta, Martone e la libertà del carcere

Il regista iraniano, presente sulla Croisette, propone una profonda riflessione sui nostri rapporti con il potere – Il cineasta italiano rende omaggio alla personalità della scrittrice Goliarda Sapienza con un film dal tono serio ma pure scanzonato
© REUTERS/Stephane Mahe
Antonio Mariotti
21.05.2025 06:00

La notizia è di quelle che fanno tirare un sospiro di sollievo a tutti coloro che amano il cinema e si battono per la libertà d’espressione. Per la prima volta dal 2010, da quando cioè il regime iraniano gli ha ritirato il passaporto e lo ha condannato anche a una pena di prigione per «attività controrivoluzionaria», il regista Jafar Panahi partecipa a un festival dove viene presentato un suo film. Il film s’intitola Un simple accident e si può di certo considerare il primo candidato serio alla Palma d’oro di Cannes 2025. Panahi - che dal 2010 ha ricevuto prestigiosi riconoscimenti a Berlino, a Cannes e a Venezia - ha girato il suo nuovo film clandestinamente ma ha avuto la possibilità di completarne la post produzione in Francia. La vicenda narrata è davvero semplice: mentre sta viaggiando in piena notte su una strada buia nella periferia di una grande città, un’auto con a bordo una famiglia (padre, madre e una bimba) investe un cane randagio. L’incidente provoca un danno alla vettura che richiede l’intervento di un meccanico del garage più vicino. Quest’ultimo riconosce (o crede di riconoscere) nel padre di famiglia uno dei suoi carcerieri e torturatori durante un periodo passato in prigione per reati politici. Il meccanico, poi raggiunto da altre tre persone che hanno vissuto la stessa esperienza, individua il presunto aguzzino (che ha un arto artificiale), lo cattura ed è deciso a vendicarsi con la stessa moneta. Panahi racconta questa vicenda drammatica, dando spazio alle toccanti testimonianze delle vittime ma si permette anche delle digressioni in forma di commedia, come quando fa sì che siano i «vendicatori» a dover accompagnare in ospedale per partorire la moglie del «carnefice». In un continuo alternarsi di voglia di vivere e presagi di morte, il cineasta sviluppa tra le righe del racconto un discorso filosofico sulla necessità e l’inutilità della vendetta che assume contorni universali, anche se è impossibile dimenticare quella che è stata la sua esperienza personale. Cosa farà Jafar Panahi dopo il Festival di Cannes? Tornerà nel suo Paese o sceglierà, come molti suoi colleghi, la via dell’esilio? Difficile rispondere ora. Certo che, con una Palma d’oro in valigia, il ritorno a casa potrebbe essere meno problematico.

Nella Roma del 1980

Non è la prima volta che il regista Mario Martone si interessa al mondo della letteratura: molti ricorderanno Il giovane favoloso (2014) con Elio Germano nei panni di Giacomo Leopardi. Fuori, il suo nuovo film visto ieri in concorso, è qualcosa di molto diverso. Ci racconta infatti un breve ma fondamentale periodo della vita della scrittrice romana Goliarda Sapienza (1924-1996) che nel 1980, disperata e sul lastrico per il fatto di non riuscire a trovare un editore per il suo libro L’arte della gioia (che verrà pubblicato solo postumo), ruba alcuni gioielli a casa di un’amica e finisce nel carcere femminile di Rebibbia. Qui l’intellettuale da salotto si confronta con un universo tutto al femminile dove, paradossalmente, trova un insperato spazio di libertà e di «sorellanza» in un contesto di privazione forzata in cui però è assente la componente maschile per lo più repressiva. Nel film, Goliarda (Valeria Golino) e la giovane Roberta (Matilda De Angelis) formano un duo che alterna un rapporto madre-figlia a quello tra due fidanzatine, tra liti improvvise e momenti di spensierato vagabondaggio in una Roma del tutto inusuale. Mario Martone e la sua abituale collaboratrice alla sceneggiatura Ippolita Di Majo procedono per tocchi di colore, passando continuamente dal «dentro» al «fuori» per mostrarci come questi cambiamenti non significhino assolutamente nulla per le donne nate «dentro» che «fuori» non sanno bene come vivere. Alla coppia delle protagoniste (molto sfaccettata la prova della Golino, meno quella della De Angelis) si unisce, nella scena dai toni più intimisti, anche Barbara (interpretata da Elodie), che aspetta «fuori» il suo uomo che è ancora «dentro». Fuori non è forse il film più accessibile di Mario Martone, ma ha il pregio di portare sullo schermo un universo, come quello del carcere femminile che (al contrario di quello maschile) non è per nulla consueto al cinema. Tanto da far tornare in mente le immagini lontane nel tempo di Nella città l’inferno (1959) di Renato Castellani con Anna Magnani e Giulietta Masina nei panni di due detenute.