L'incontro

«Sarei voluto venire a Locarno già l'anno scorso»

Abbiamo incontrato il grande sceneggiatore e regista americano Alexander Payne, Pardo d'onore 2025
© Locarno Film Festival / Ti-Press
Max Armani
16.08.2025 06:00

Ama il cinema classico italiano, ma si infuria quando il distributore locale aggiunge sottotitoli a caso ai titoli dei suoi film (ancora si scalda quando ricorda che nel 2005 Sideways – il film che gli valse il suo primo Oscar – ebbe l’estensione In viaggio con Jack). Ama il cinema classico in generale, e a Locarno si è fatto dare appositamente una stanza d’albergo in prossimità del GranRex, per poter assistere alle proiezioni della Retrospettiva dedicata alla produzione inglese del secondo dopoguerra («Volevo venire già l’anno scorso, per il programma del centenario della Columbia Pictures»).

Anche a Venezia, dove tra qualche settimana sarà impegnato come presidente di giuria («Ho già detto ad Alberto Barbera che mi farò dei nemici con il verdetto finale, perché con molti dei registi in gara ho rapporti amichevoli»), si ritaglierà il tempo per vedere almeno un titolo della sezione Classici. Se non facesse il cineasta, molto probabilmente Alexander Payne – che è anche frequentatore assiduo del Cinema Ritrovato a Bologna, salvo sovrapposizione d’impegni – sarebbe un curatore o programmatore. «Sì, è vero, se non fossi riuscito a fare il regista – e ci sono persone che hanno frequentato la scuola di cinema con me e non ce l’hanno fatta – avrei ripiegato sui festival o sulle cineteche, assolutamente. E da bambino volevo fare il proiezionista».

Al Festival riceve il Pardo d’onore, e per l’occasione ha deciso di presentare Paradiso amaro (2011) e Nebraska (2013). Cosa significano quei due film nello specifico? «In realtà non faccio chissà quale distinzione tra le mie opere. Però sono due buoni esempi di una cosa che io faccio, ossia dare l’idea del posto in cui si svolge la vicenda. Sono un cineasta di luoghi, voglio che gli abitanti di quelle zone riconoscano come autentiche le location che si vedono sullo schermo».

A proposito di luoghi, e del suo amore per l’Europa, a breve inizieranno le riprese di un progetto in Danimarca, con protagonista Renate Reinsve. «Lo sceneggiatore aveva scritto quel copione per un altro regista, e poi l’ha mandato a me, pensando che avrei spostato l’azione negli Stati Uniti. Ma ci sono scene ambientate nella sauna, per esempio. Bisogna mantenere la location originale, che è nello Jutland».

Da un po’ di anni è anche cittadino greco (il nonno paterno si chiamava Papadopoulos) e ha un appartamento ad Atene, ma non c’entra il voler stare lontano da Trump. «La mia ex-moglie è greca, e stiamo crescendo un figlio di otto anni, quindi passo molto tempo ad Atene», spiega Payne. «La cittadinanza invece è per motivi professionali, con il passaporto greco posso girare in Europa e accedere ai tax credit per quelle produzioni». La presidenza americana non inciderà neanche sull’annunciato sequel di Election, la commedia per cui fu candidato all’Oscar come sceneggiatore per la prima volta. «Jim Taylor, il mio partner per la scrittura, ha avuto l’idea giusta per tornare a parlare della protagonista, Tracy Flick, e a noi interessa quello, non fare un discorso sulla situazione attuale. Anche perché, ora che un film esce in sala, l’argomento di attualità non sarà più tale». Ma anche se fosse, l’eventuale ira funesta di Trump o chi per lui non sarebbe un problema, perché Payne è tra i pochi registi americani ad avere diritto al final cut, l’autorità sul montaggio finale. «Sì, ma quella è una cosa sopravvalutata, a dire il vero. Il più delle volte i produttori non ci pensano neanche a rimontare il film, perché è impegnativo e loro sono pigri».

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