«Senza libertà, neanche il cinema può esistere»

Sopravvissuto al regime dei Khmer rossi, Rithy Panh ha fatto della memoria e delle ferite della Cambogia il cuore del suo cinema. Dopo aver presieduto la giuria internazionale del Festival di Locarno, ci ha raccontato come il cinema resti, oggi più che mai, uno strumento fondamentale per interrogare la complessità del presente.
Che tipo di sguardo ha portato con sé nella selezione dei film in concorso a Locarno?
«Scegliere non è mai facile. So bene quanto sia complesso realizzare un film, per chiunque sia coinvolto: registi, sceneggiatori, produttori. Dall’ideazione al finanziamento, fino alla realizzazione, è un percorso lungo, incerto, pieno di ostacoli. Spesso il pubblico non ha piena consapevolezza di quanto lavoro e rischio ci siano dietro ogni progetto. Per questo credo che ogni film meriti rispetto: per l’impegno, la dedizione e il coraggio che richiede».
Quali sono, secondo lei, i criteri più importanti per valutare un film oggi?
«Oggi il modo di leggere le immagini è profondamente cambiato: nuove modalità di fruizione e linguaggi in continua evoluzione stanno trasformando il rapporto con il cinema. Io, invece, resto legato a una visione più classica: alla direzione degli attori, alla qualità della luce, alla storia del cinema. Sono elementi per me essenziali, che definiscono davvero la cinematografia. Ma oltre l’aspetto tecnico, ciò che davvero conta secondo me è il senso profondo del racconto. Mi chiedo sempre: perché questa storia? Perché proprio questo film? È una domanda che mi accompagna costantemente».
Per lei qual è il rapporto tra impegno politico e dimensione poetica nel cinema?
«Credo che anche nel cinema politico debba esserci sempre spazio per la poesia. Non intesa solo come forma lirica, ma nel suo significato originario: poiesis, creazione. Il poeta non è soltanto chi scrive versi, ma chi ha qualcosa da dire, e lo crea. Se c’è questa urgenza, allora vale la pena fare un film. Per me, la poesia è essenziale: come bellezza, come silenzio, come rispetto per lo spettatore. Non tutto deve essere spiegato. Un film non è un trattato, si può amare anche senza comprenderlo del tutto, come accade con un quadro. Ricordo quando, agli inizi, scoprii Tarkovskij e Bresson: non capivo tutto, temi come la fede mi erano distanti, ma c’era qualcosa che parlava anche a me. Questo, per me, è ciò che rende un film universale: può raccontare una realtà lontana, ma se riesce a commuoverti, ha valore. Un film troppo didascalico, troppo esplicitamente politico, rischia di spegnere sé stesso. Il cinema, prima di tutto, deve essere cinema».
Secondo lei, quali sono le maggiori criticità che il cinema affronta oggi?
«Spero di sbagliarmi, ma ho l’impressione che il cinema stia attraversando una crisi profonda, e in parte la responsabilità è anche nostra. L’immagine si è banalizzata, non solo nel cinema ma ovunque, anche nel giornalismo. È un fenomeno più ampio: siamo a un bivio, immersi in una forma di schiavitù sottile che rende sempre più difficile resistere e creare con libertà. Oggi è quasi impossibile lavorare a progetti seri. Un tempo, se avevi un’idea, trovavi sostegno. Ti si diceva: vai, esplora, incontra, racconta. Ora tutto è ridotto, tagliato, semplificato. Anche la ricerca visiva sembra svanita: basta confrontare certi film contemporanei con quelli di Antonioni: la luce, le inquadrature, il linguaggio. Oggi la luce è piatta, omologata. Si osa sempre meno, nei contenuti come nella forma. E in più viviamo in un clima di pressione costante: come sui social, ci si aspetta che tu prenda subito posizione, che ti schieri. Non c’è più spazio per la riflessione, per la complessità, per le sfumature».
Come pensa si possa invertire la rotta e ritrovare una visione più consapevole dell’immagine?
«Perché qualcosa cambi davvero, servirebbe una presa di coscienza collettiva. Ma temo che non accadrà: l’urgenza di produrre profitto, sempre più in fretta, prevale su tutto. Oggi si producono contenuti pensati per lo smartphone, da consumare in due fermate di metro. Non c’è più spazio per la profondità. Sognavamo la democratizzazione dell’immagine, ma stiamo solo contribuendo alla sua banalizzazione. È per questo che ritengo fondamentale introdurre l’educazione all’immagine nelle scuole, al pari della letteratura: aiuterebbe a sviluppare senso critico, consapevolezza. Oggi il problema non è la mancanza di scelta, ma la capacità di discernere. E oggi la cultura, troppo spesso, viene vissuta quasi come un’intimidazione. Essere intelligenti è diventato sospetto. Si punta al minimo comune denominatore. Ed è questo il pericolo più grande, non solo per il cinema, ma per l’intera società. Il cinema è solo uno specchio di ciò che siamo. Quello che si è rotto è il nostro modo di vivere insieme. Il cinema ha perso anche questo: la sua funzione sociale».
Attraverso la storia della Cambogia, i suoi film interrogano la memoria della violenza. In che misura quei meccanismi si ripropongono nei conflitti che ci circondano?
«Oggi il giornalista non può più fare davvero il suo mestiere, così come il cinema cerca un modo di fare il suo. Sono due lavori diversi, ma entrambi in crisi. Quella in corso a Gaza non è solo una guerra, è una forma di violenza estrema che lascerà segni per generazioni, creando odi che dureranno decenni, secoli. Lo stesso succede in Ucraina, ovunque. Il problema è che tutto si banalizza. Si parla di un conflitto un giorno, di un altro il giorno dopo, poi tutto si dissolve. Siamo sommersi da immagini di droni, bodycam, ma non vediamo davvero. Per capire, bisognerebbe seguire una storia per anni. Un bambino a cui oggi amputano una gamba dovrà convivere con dolore e cure tutta la vita. Questa è la guerra. E troppo spesso ce lo dimentichiamo».
Uno dei suoi film più recenti, Irradiés (2020), è nato prima della guerra in Ucraina, ma sembra anticiparne molte immagini e riflessioni. È un documentario che affronta la violenza estrema non solo come fatto storico, ma come trauma che attraversa i corpi e le generazioni. Cosa l’ha spinta a realizzarlo in quel momento?
«A volte questi lavori non vengono capiti. Durante la lavorazione di quel film ho letto numerosi studi che mostrano come il trauma possa trasmettersi fino alla quinta generazione. Non sempre accade, ma spesso sì. Dopo trentacinque anni passati a interrogarmi sulla memoria e sulla violenza, noto come molti giovani affrontino difficoltà identitarie e psicologiche proprio perché le generazioni precedenti hanno taciuto, non hanno raccontato la loro storia. Credo che oggi la maggior parte delle persone non abbia davvero idea di cosa significhi vivere una guerra. La vedono come uno spettacolo, qualcosa di irreale, e questo è il vero pericolo. Il cinema non può certo cambiare il mondo, ma può lasciare qualcosa: un’immagine, una domanda, una scintilla di empatia. E da lì, forse, può nascere un cambiamento. Silenzioso, ma reale».
Che tipo di sguardo dovrebbe coltivare chi oggi si avvicina al cinema?
«Il cinema si impara, come tutto nella vita. Non esistono scorciatoie, né formule magiche. Non credo nelle masterclass lampo. Serve tempo, studio, errori. Solo così si diventa liberi, e senza libertà il cinema non può esistere.