L'intervista

«"Sulla strada" appartiene a chiunque la percorrra»

Presentato fuori concorso, il nuovo documentario del regista e produttore statunitense Ebs Burnough, Kerouac’s Road: The Beat of a Nation, indaga l’eredità che l’iconico romanzo di Jack Kerouac ha lasciato sull’America di oggi
© LFF/Marco Abram
Viviana Viri
14.08.2025 06:00

Presentato fuori concorso, il nuovo documentario del regista e produttore statunitense Ebs Burnough, Kerouac’s Road: The Beat of a Nation, indaga l’eredità che l’iconico romanzo «Sulla Strada» di Jack Kerouac ha lasciato sull’America di oggi. Gli abbiamo chiesto di raccontarcelo.

Perché raccontare Kerouac oggi? Quale significato ha per lei Sulla strada dopo tutti questi anni?
«Ho scoperto Sulla strada a sedici anni, quando vivevo nel nord della Florida, al confine con la Georgia. Ce lo fecero leggere a scuola e lo trovai incredibile, ispirante. Le osservazioni di Kerouac ci hanno permesso di capire come sessualità, razza e libertà fossero percepite nel cuore del Paese. Da allora mi porto dietro una domanda: quante persone, nel 1957, potevano davvero essere sulla strada? Chiunque non rientrasse nei canoni dominanti dell’epoca era, di fatto, escluso. C’era una profonda divisione sociale e culturale. Oggi il mondo non è perfetto, ma molto è cambiato. E credo che, in un certo senso, siamo tutti sulle nostre strade personali. Proprio questo senso condiviso del viaggio, del cammino, è ciò che ci unisce. Da lì è nata l’idea del film: raccontare tutte le persone che possono essere sulla strada e non solo una singola prospettiva».

Sulla strada è anche un racconto di privilegio. L’immaginario della Beat Generation è spesso confinato a un’immagine prevalentemente maschile e bianca. Cosa l’ha spinta ad ampliare la narrazione includendo prospettive più inclusive?
«Da ragazzo, crescendo e rileggendo Sulla strada, ho iniziato a pensare a tutte le persone che, nel 1957, in America, non avevano davvero la possibilità di mettersi in viaggio. Quell’anno, il presidente Eisenhower inviava truppe federali nel Sud per far rispettare l’integrazione scolastica: stavamo ancora costruendo, letteralmente e simbolicamente, la strada che un giorno ci avrebbe permesso di camminare insieme. Per me non si trattava tanto di mettere l’accento sull’esclusione, anche perché oggi, quando si parla di inclusione, si tende a pensare che includere qualcuno significhi escludere qualcun altro. Ma io non credo sia così. La forza di Sulla strada sta proprio nella sua apertura: è una storia che, nel suo spirito più profondo, può appartenere a chiunque. Pur essendo radicata nell’America degli anni Cinquanta, ha ispirato generazioni in tutto il mondo a uscire dal proprio contesto, ad aprirsi, a cercare. Ecco perché era fondamentale raccontare più viaggi, più voci, più strade possibili».

Lo status di Kerouac è cambiato nel tempo, come vi siete confrontati con la difficoltà di raccontarlo alle nuove generazioni?
«Ci siamo interrogati a lungo su questo punto. Credo che sia possibile apprezzare la bellezza e l’intelligenza di un’opera pur riconoscendone i limiti legati al contesto in cui è nata. Anche se oggi il nostro modo di parlare e di pensare è cambiato, il valore universale del libro resta intatto. Fin dall’inizio abbiamo cercato di evitare che il film si rivolgesse soltanto ai fan storici di Kerouac e di farne invece uno sguardo sull’America di oggi, ponendoci una domanda: a chi appartiene Kerouac, oggi? Il suo messaggio di libertà e desiderio di scoperta è ancora vivo, anche se rileggiamo certe parole e atteggiamenti del passato con maggiore consapevolezza. Per molti, Kerouac continua a rappresentare proprio questo: l’idea che là fuori ci sia ancora molto da scoprire».

Nel documentario emerge inoltre un Kerouac più intimo e contraddittorio rispetto all’icona pubblica: come ha lavorato per portare alla luce questo lato meno conosciuto?
«All’inizio ho commesso l’errore di pensare di sapere tutto su Kerouac solo guardandolo: un giovane bianco, eterosessuale, laureato in un’università della Ivy League. Ma, scavando più a fondo, ho scoperto che Kerouac era una dicotomia vivente. Un immigrato franco-canadese, cresciuto in una famiglia operaia del Massachusetts, che si è sempre sentito un outsider. Un bisessuale non dichiarato con un’immagine pubblica da eterosessuale, un cattolico conservatore che frequentava i bohémien. Il suo viaggio non era solo una fuga, ma una ricerca di appartenenza. Kerouac, inoltre, era un osservatore dell’America, e più mi addentravo nei suoi archivi e nella sua storia d’origine, più ne rimanevo affascinato. Incarna non solo le nostre lotte interiori, ma anche quelle di una nazione di persone in conflitto, ciascuna sul proprio percorso, in un Paese ancora relativamente giovane».

In che modo questo film ha cambiato la sua percezione del viaggio?
«Per me la scoperta più importante è stata il valore del ritorno. Prima di fare film ho lavorato per anni nella politica americana, e raccontare questa storia oggi è stato particolarmente significativo. Nei campeggi di New Mexico, Texas e Arizona ho visto persone con idee opposte dialogare: da una parte chi detestava Trump, dall’altra chi detestava Biden, ma si scambiavano informazioni pratiche e consigli, come dove trovare benzina economica o una buona steakhouse. Questo mi ha ricordato che, in fondo, ci unisce più di quanto ci divide. È una lezione che avevo dimenticato, nonostante la politica me l’avesse insegnata. Per quanto riguarda social e algoritmi, credo sia nostra responsabilità coltivare una comunicazione autentica e costruire comunità reali, perché esistono, anche se se ne parla troppo poco». 

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