L’intervista

«Cosa avremmo fatto durante il lockdown senza la musica?»

Bastian Baker si racconta al Corriere del Ticino: dall’esperienza con il Circo Knie al suo ultimo album, «Stories of the XXI», scritto prima e durante la pandemia
© KNIE
Giorgia Cimma Sommaruga
15.01.2022 06:00

Personalità del pop rossocrociato, conosciuto anche a livello internazionale, a dispetto della crisi ha appena lanciato Stories of the XXI. Parliamo di Bastian Baker, che ha confidato tutti i retroscena del disco ai nostri microfoni. Dalla gestazione di due anni agli stili che lo compongono, passando per l’esperienza circense.

Partiamo dal titolo dell’album: come è caduta la scelta su Stories of the XXI?
«Ogni volta che devo trovare il titolo giusto per un album penso alle canzoni che vi sono contenute. Qual è la parola o la frase che può collegare tutti i brani? Beh, in questo caso racconto le storie di un’epoca, parlo delle relazioni, del mondo che viviamo, sia dal mio punto di vista sia da un punto di vista esterno. Mi piace molto ascoltare le storie di amici e conoscenti. Associandole alle emozioni che ho provato mentre le ascoltavo, sono nate le canzoni».

Quale canzone la rappresenta di più in questo ultimo album?
«Dico sempre che le mie canzoni sono i miei bambini, quindi tutte mi rappresentano. Solitamente, dopo l’uscita di un mio album non mi piace ascoltarlo. Questo perché la gestazione è solitamente molto lunga, e lo è anche il lavoro di produzione. Quindi, una volta uscito, è come se si chiudesse un capitolo. Il che mi porta a guardare già avanti. Oggi la mia canzone preferita dell’album può essere una, ma domani può anche cambiare. Ora come ora la canzone Call Me In LA mi piace moltissimo perché rappresenta il mio stile. Ma questo non vuol dire che non abbia sperimentato nuove vibrazioni».

Questo album non si caratterizza per un unico stile, in effetti.
«Da sempre, nei miei lavori esco dai miei schemi con almeno un brano. Credo che un artista abbia più facce e anche per me è così. Già con l’album precedente, con canzoni come Stay, ho sperimentato il pop. E quando mi sono trovato a scrivere l’ultimo disco, beh, ho voluto sperimentare maggiormente con The Way It Is o la stessa Call Me In LA. Ma non ho abbandonato le sonorità con cui sono nato, chitarra in mano. Lo si sente in brani come We Ruined Our Story, Secret e No Secrets. Magari non hanno il profilo per essere canzoni che vanno forte in radio, però quando faccio concerti sono quelle che tutti i miei fan cantano con me».

Forse è anche a causa della pandemia se ho sperimentato stili differenti

Un album dalla gestazione lunga: prima e durante la pandemia.
«Quando ho scritto una canzone come Leave A Scar, mentirei se dicessi che non ho pensato al pubblico e ai concerti. Era il 2019 e mi trovavo a Nashville. Non sapevo ancora cosa fosse la COVID-19. Ma dopo, quando mi trovavo in pieno lockdown, ho scritto testi differenti, come ad esempio When It’s All Over e Jackpot: il momento che si viveva era talmente differente rispetto a quelli precedenti. Il modo stesso di registrare era cambiato: prima andavo in uno studio, poi si faceva tutto tramite Zoom. Forse è anche a causa della pandemia se ho sperimentato stili differenti».

Com’è stato creare testi quando il mondo cambiava a causa della pandemia?
«Non solo il mondo cambiava, io stesso cambiavo. All’inizio della pandemia ero in Costa Rica, avevo con me la chitarra. Per i primi due mesi non ho toccato l’emergenza vera. Negli anni passati la musica era diventata il mio lavoro. Guardavo il mondo, frenetico e spesso superficiale, e non sapevo più cosa scrivere nei miei testi, non potevo scrivere veramente quello che vedevo perché non mi piaceva parlare di un mondo così. Poi è arrivata la pandemia e anche io, come tutti credo, ho iniziato a rivalutare le cose semplici, a dare un valore diverso a tutto quello che facevo. E così, ho iniziato a fare alcune cover di artisti che ammiravo. Quindi, ho pensato: quali sono le cose che mi mancano di più in questa nuova vita? Proprio in quel momento ho scritto When It’s All Over: l’unica canzone nell’album che parla della COVID-19. Ma non è una canzone cupa e di negatività, tutt’altro».

Prima c’era questo atteggiamento per cui si pensava che la cultura non fosse essenziale, ma pensiamoci bene: cosa avremmo fatto durante il lockdown senza musica, letteratura, libri, film?

Quindi ha avuto un atteggiamento di positività nei confronti della pandemia?
«Certo. Io sono sempre stato ottimista. Prima c’era questo atteggiamento per cui si pensava che la cultura non fosse essenziale, ma pensiamoci bene: cosa avremmo fatto durante il lockdown senza musica, letteratura, libri, film? Io credo che la cultura artistica abbia salvato tante anime in questo periodo».

Con l’esperienza circense ha avuto l’occasione per incontrare nuovamente i fan ticinesi.
«Io sono molto legato al Ticino. La prima radio in assoluto che ha trasmesso la mia prima canzone è stata ReteTre. Poi sono stato al Moon and Stars e al Foce a suonare. In quelle occasioni si è instaurato un legame davvero bello con la gente. Spero tanto che, grazie a questa bellissima esperienza con il Circo Knie, anche chi non mi conosceva inizi ad apprezzarmi. E poi parliamoci chiaro, tornare qui per me è un regalo: si mangia benissimo, la gente è gentile e posso parlare in italiano».

Un artista svizzero che ha girato il mondo ma torna sempre a casa sua, si può dire?
«Ho girato il mondo per dieci anni, ma sono sempre tornato a casa. Per me è davvero importante sentire il calore della mia gente. La Svizzera è un Paese di musica, non so se esiste nel mondo un Paese in cui ci sono così tanti festival musicali. Sono orgoglioso di poter essere conosciuto nella mia terra natia».