Dieci anni senza Steve Lee

Sono passati dieci anni da quel 6 ottobre 2010 che sembrava un mercoledì come tanti altri. Finché in redazione non iniziò ad arrivare una serie di telefonate che comunicavano che il giorno prima - martedì 5 ottobre - negli Stati Uniti, nei pressi di Las Vegas, si era verificato un incidente stradale nel quale aveva perso la vita Steve Lee. Una notizia alla quale inizialmente nessuno voleva credere, tanto più che le informazioni provenienti dagli States inizialmente erano frammentarie, con pochi e confusi dettagli tanto da lasciar sperare che si trattasse di un equivoco. Eppoi c’era il fatto che nemmeno troppo tempo prima Steve l’avevamo incontrato e stava bene, nonostante qualche leggero acciacco dovuto ad un violento tamponamento di cui era stato protagonista un paio di mesi prima. Anzi in quell’occasione Steve aveva rilanciato quella proposta che da anni rappresentava il nostro «private joke». «Quando la rifacciamo la serata in riva al lago?»
Quella serata in riva al lago
Il riferimento era ad un episodio accaduto all’inizio degli anni Ottanta: il gruppo in cui militava all’epoca (credo fossero i Cromo) e la band nella quale il sottoscritto malmenava la musica furono protagonisti di una serata nella piccola piazzetta del mio paese natio in riva al lago. Serata alla quale assistettero non più di una quarantina di persone e che si concluse con una mangiata e una bevuta memorabili sulla spiaggia che durarono fino al mattino, quando tutti ci risvegliammo con la testa pesantissima ma con il cuore leggero. Una serata che a Steve era rimasta nel cuore tanto da rilanciarne un remake ogni volta che ci incontravamo. «Ma lo sai che su quella piazzetta non ci sta neppure metà del palco su cui suoni oggi?», era la mia scontata risposta, seguita sempre da una bella risata e da un abbraccio in ricordo di quei tempi. Ecco, in questo banalissimo aneddoto c’è probabilmente tutto Steve Lee: un ragazzo semplice divenuto una rockstar ma senza che ciò intaccasse il suo essere, la sua gentilezza d’animo, il suo rimanere legato alle proprie radici e la sua semplicità e la sua riservatezza. Già, perché nonostante sul palco sfoderasse una grinta ed un carisma straordinari e, grazie al fatto di provenire da famiglia svizzero-tedesca, fosse in grado di esprimersi perfettamente in vari idiomi così da non trovarsi mai a disagio in qualsiasi situazione, Steve non era propriamente un estroverso.

In principio c’era la batteria
Tanto che, iniziata la sua avventura musicale come batterista, fu necessaria una grande insistenza da parte degli allora suoi compagni di avventura dei Forsale affinché la smettesse di «nascondersi» dietro tamburi e piatti e sfruttasse la sua straordinaria timbrica e la sua presenza scenica diventando il frontman del gruppo. E anche una volta giunto al grande successo nazionale e internazionale con i Gotthard - dei quali era assieme a Leo Leoni l’indiscussa anima - non si è mai lasciato prendere dal divismo, anzi. «Una volta eravamo ad un openair nel quale suonavano anche i Deep Purple, che sono sempre stati i miei idoli», mi raccontò una volta. «In scaletta noi avevamo anche un paio di loro cover che in quell’occasione proprio non me la sentivo di proporre. Alla fine però, pur con il cuore in gola, le cantai. Quando, alla fine del concerto, nel backstage vidi i Purple avvicinarsi, mi sentii morire. Adesso mi insulteranno come un cane per come ho trattato i loro brani, pensai. Invece mi fecero i complimenti. Beh, a quel punto mi sembrò di essere in paradiso».
Il grande sogno
Nonostante la notorietà, Steve Lee era insomma rimasto sempre con i piedi per terra, anche quando i suoi dischi raggiungevano, appena usciti, la vetta delle classifiche di vendita e i suoi concerti facevano registrare presenze di assoluto livello: raggiungerlo era cosa estremamente facile, così come ottenere la sua attenzione ed il suo entusiasmo, soprattutto se lo si interpellava per cause meritevoli. E anche la sua passione, rivelatasi poi fatale, per le Harley Davidson la viveva non come una sorta di status symbol ma con semplicità e con gioioso entusiasmo. Lo stesso gioioso entusiasmo con cui dieci anni fa decise finalmente di coronare un suo grande sogno: attraversare gli Stati Uniti a bordo della sua due ruote in modo da sperimentare in prima persona quell’atmosfera di libertà in pieno stile rock’n’roll con la quale era cresciuto. Un’avventura che aveva deciso di condividere con un manipolo di amici tra cui la compagna Brigitte e il bassista dei Gotthard, Marc Lynn, e conclusasi drammaticamente sulla Interstate 15 nei pressi di Mesquite, Nevada, quando la pioggia costrinse la comitiva di centauri ad una sosta per indossare le tute da pioggia. Poi l’arrivo di un camion pesante che iniziò a sbandare sull’asfalto bagnato travolgendo alcune delle moto parcheggiate e Steve Lee, morto quasi istantaneamente. Un incidente che se ci ha privati fisicamente di una delle più straordinarie personalità della musica svizzera contemporanea, non è riuscito minimamente a scalfirne né l’immagine né il ricordo che, grazie anche alle canzoni che continuiamo e continueremo ad ascoltare, rimarrà a lungo con noi.
l disco: un omaggio acustico tra grandi successi e inediti

Ho sempre cercato di fare musica e scrivere canzoni, ma non di essere famoso». Così diceva Steve Lee quasi vergognandosi dello status di rockstar che aveva raggiunto. Status che anche a dieci anni di distanza dalla sua scomparsa è rimasto immutato, come testimonia l’affetto che il pubblico continua a nutrire nei suoi confronti, ma anche il profondo attaccamento nei suoi confronti dimostrato in mille occasioni dai «suoi» Gotthard. Che in questi giorni hanno pubblicato The Eyes of a Tiger: In Memory of Our Unforgotten Friend, album che raccoglie alcune indimenticate interpretazioni di Steve, rilette in chiave acustica dalla band e arricchite da un paio di inediti. «Era importante fare qualcosa nel decimo anniversario della scomparsa di Steve: quindi noi Gotthard abbiamo deciso di metterci di nuovo al suo fianco», ha detto l’amico di sempre Leo Leoni. «E lo abbiamo fatto realizzando questo disco acustico, intimo, costruito ripescando delle registrazioni che avevamo fatto diversi anni fa, completandole in modo da portarle al cuore di tutti». Disco composto da quattordici tracce: due inedite, quella che dà il titolo all’album (un rifacimento del celebre hit dei Survivor, inserito nella colonna sonora di Rocky III e proposto in due versioni, una acustica e una più vivace) e Tarot Woman e undici versioni «essenziali» di canzoni famose dei Gotthard tra cui un’affascinante Hush e intense ballate come One Life One Soul e Heaven. Un album con il quale, sottolinea la band, «fare un viaggio nel tempo altamente emozionante, accompagnati da una voce straordinaria e indimenticabile come quella di Steve».
La tracklist dell’album
01. One Life One Soul
02. Let It Be
03. In The Name
04. Lonely People
05. Heaven
06. Need To Believe
07. Lift U Up
08. Hush
09. First Time In A Long Time
10. Tarot Woman
11. And Then Goodbye
12. The Train
13. Eye Of The Tiger
BONUSTRACK
14. Eye Of The Tiger (Electric Version)