75. Festival di Cannes

Due voci convincenti dall'esilio

L'egiziano Tarik Saleh e l'iraniano Ali Abbasi vivono in Scandinavia e non possono più girare nel loro Paese - Ciò non ha però impedito loro di presentare in concorso due opere di denuncia sociale - Interessante anche il nuovo film diretto da Valeria Bruni Tedeschi
© EPA/SEBASTIEN NOGIER
Antonio Mariotti
23.05.2022 06:00

Sospinta da una leggera brezza marina che attenua le temperature decisamente estive, l’imbarcazione di Cannes 75 è giunta al giro di boa e finora la navigazione è stata decisamente piacevole, complice l’ottimo livello medio dei titoli scelti dal direttore artistico Thierry Frémaux per il concorso internazionale. I due film più convincenti non sono però opera di registi affermati, bensì di cineasti accomunati da uno strano destino. Tarik Saleh (50 anni), è di origine egiziana ma è nato e cresciuto in Svezia, dove risiede tuttora e a Cannes ha presentato Boy from Heaven, il suo sesto lungometraggio. Ali Abbasi (41 anni) è nato in Iran ma all’età di 21 anni si è trasferito pure lui a Stoccolma per seguire una scuola di cinema, lì è rimasto e ieri sulla Croisette ha proposto la sua terza opera Holy Spider. Ebbene, pur vivendo in Europa e non potendo più lavorare nel proprio Paese a causa del veto delle autorità rispetto ai loro film precedenti, entrambi continuano a denunciare la corruzione, gli intrighi politici e religiosi, l’ineguaglianza tra i sessi e il disagio sociale che caratterizzano delle società che conoscono molto bene. Esiliati, hanno quindi dovuto girare i loro nuovi film altrove: Saleh in Turchia, Abbasi in Giordania.

Spy story politica al Cairo
Boy from Heaven è la storia di Abel, giovane originario di un piccolo villaggio di pescatori del nord dell’Egitto, che riceve l’inattesa notizia di aver vinto una borsa di studio statale per poter continuare i propri studi all’università di Al-Azhar del Cairo, considerata il più importante centro religioso dell’Islam sunnita. Abel vi giunge proprio il giorno in cui il grande Imam (carica paragonabile a quella del Papa per la cristianità) muore improvvisamente durante il discorso di benvenuto agli studenti. La nomina del suo successore non interessa però solo alle autorità religiose ma anche a quelle civili e - in seguito a una serie di circostanze - Abel finirà con l’essere ingaggiato dai servizi segreti egiziani quale informatore all’interno dell’università. Saleh sviluppa questa vicenda come un vero e proprio spy thriller alla John Le Carré, con suspense e ironia che si intersecano spesso, grazie soprattutto al personaggio dell’eccentrico colonnello Ibrahim: la spia che tiene i contatti con Abel. L’immagine della realtà egiziana che emerge dal film è quella di un coacervo di gruppi d’interesse che cercano continuamente di farsi lo sgambetto a vicenda senza disdegnare minacce, violenze ed assassinii. Un sottobosco brulicante di uomini assetati di potere che Saleh dipinge con i toni giusti, grazie alla sua capacità di dominare un genere dalle regole complesse.

Il serial killer della città santa
Per Holy Spider, il discorso è leggermente diverso, ma anche l’obiettivo di Ali Abbasi è quello di mostrarci i problemi che attanagliano la società del suo Paese. Il regista prende spunto da un terribile fatto di cronaca: il caso di un serial killer che tra il 2000 e il 2001 uccise, strangolandole, 16 prostitute nella città santa di Mashhad. A smuovere le torbide acque di questa vicenda di cui la polizia non pare occuparsi, ci pensa una esperta giornalista giunta da Teheran che, mettendo a repentaglio la propria vita, smaschererà il colpevole: un cinquantenne reduce della guerra con l’Iraq che conduce una vita del tutto normale (ha una moglie e due figli) e si dice guidato dalla mano divina. Il film non lascia un attimo di tregua e sottolinea la dimensione misogina della società iraniana, all’interno della quale le donne sono considerate un’entità trascurabile, la cui vita spesso vale meno di nulla.

Alla corte di Patrice Chéreau
Dignitose ma al di sotto delle attese le opere dei due registi già coronati con la Palma viste finora. In Triangle of Sadness lo svedese Ruben Östlund punta il suo occhio da entomologo sul mondo della moda, ma dopo un inizio molto promettente il film si smarrisce tra una traversata a bordo di uno yacht e un naufragio su un’isola deserta. Dai toni più sociologici invece l’approccio del romeno Cristian Mungiu che in R.M.N. s’ispira a una situazione realmente verificatasi in un villaggio della Transilvania per mettere a nudo i problemi di una regione dove si intersecano lingue e culture diverse (romena, ungherese e tedesca). Peccato che la trama inventata dal cineasta complichi inutilmente il tutto invece di aiutare a fare chiarezza. Merita invece un elogio convinto l’attrice italo-francese Valeria Bruni Tedeschi, alla sua quarta esperienza registica, che con Les Amandiers ci regala un bel quadro d’insieme della propria esperienza, alla metà degli anni Ottanta, alla scuola di teatro di Nanterre dove lavorava Patrice Chéreau. Come nei suoi film precedenti, l’ispirazione è autobiografica ma questa volta la «famiglia» del film è composta dai 12 giovani attori scelti per frequentare la scuola. Tra amori ricambiati e non, dubbi esistenziali e slanci creativi e sullo sfondo il flagello della droga e quello dell’AIDS, un film vivace, profondo e per nulla agiografico nei confronti di Chéreau.