L’intervista

«È il Sanremo di Ibra, ma dov’è la canzone?»

Con Massimo Luca, storico chitarrista, autore e produttore, saliamo ipoteticamente sul palco dell’Ariston fra vecchi ricordi e nuovo che avanza
Massimo Luca, 71 anni. © Web
Marcello Pelizzari
02.03.2021 18:50

Anni e anni fa, con la sua chitarra, ha contribuito alla grandezza di molti artisti. Peschiamo, a caso, dal lunghissimo elenco: Lucio Battisti, Fabrizio De André, Paolo Conte, Mina, Francesco Guccini. E ancora Loredana Bertè, Roberto Vecchioni, Ornella Vanoni, Mia Martini. Mamma mia. Massimo Luca, 71 anni, è anche un autore e un produttore. Anche qui, la lista delle collaborazioni è parecchio estesa. Gianluca Grignani, Biagio Antonacci, Paola e Chiara, Fabrizio Moro. Per tacere di Annalisa Minetti, con cui nel 1998 stravolse Sanremo vincendo sia fra i giovani sia fra i big. Recentemente, lo avevamo intervistato per ricordare Luigi Albertelli e la famosa sigla di Goldrake. Oggi, gli abbiamo chiesto di parlare (e di parlarci) del Festival.

Massimo, partiamo da una banalità: qual è la ricetta per arrivare fino in fondo al Festival e uscirne vincitori?

«Mi verrebbe da dire una cosa, anche carina sul piano estetico, e cioè che alla fine vince la canzone migliore. Ovvero quella più orecchiabile e meno stupida, quella con le caratteristiche sanremesi. Vince la canzone migliore unitamente ad un artista che sappia emozionare e che abbia una bella voce. Detto ciò, rispondo anche in un altro modo: a vincere è, spesso, l’azienda più altolocata».

L’eterna lotta fra la musica intesa come arte e il mercato.

«È un gioco delle parti, sì. Ed è vecchio almeno quanto Pirandello. Niente di nuovo sotto il sole. L’azienda più potente vince. O, se preferite, volendo non rendere squallida la cosa possiamo dire che ad aggiudicarsi Sanremo solitamente è l’azienda che può giocarsi le carte migliori. La regola, nel bene e nel male, è sempre stata questa».

Il Festival assomiglia alla Formula Uno: vince il team con le risorse più importanti

In fondo, a pochi chilometri da Sanremo c’è Monte Carlo. Uno dei luoghi sacri della Formula Uno. E il Festival sembra avere logiche simili, vero?

«Sì, il Festival assomiglia alla Formula Uno. Uno sport che premia il team con le risorse più importanti. Il parallelismo c’è, ma in generale tutte le competizioni sono così. E in fondo non ha senso fare polemica soltanto su Sanremo, invocando regole differenti».

Chi si è affacciato alla musica sul finire degli anni Sessanta con che occhi guarda il Festival del 2021?

«Con gli occhi di chi, ahimè, si rende conto che questa rassegna non è più la rassegna che celebra la canzone italiana. È un po’ tutto e un po’ niente. Il Festival del team vincente, del cantante, del personaggio, del direttore artistico che porta più ospiti d’eccezione, del gossip. C’è, allargando il campo, parecchia assuefazione. A questo punto, diventerebbe incredibile soltanto un Festival capace di invitare il Papa. Oramai Sanremo ha raggiunto una dimensione clownesca e circense. Ma, appunto, ha perso il suo obiettivo principale. La canzone italiana, che ai primi tempi veniva celebrata indipendentemente da chi cantava. Nelle prime edizioni, a memoria, c’erano pochissimi interpreti. Appena tre nel 1951, ad esempio. E cantavano tutti i brani. Come a sottolineare che la regina, l’unica e vera, era la canzone. Adesso, invece, vince il personaggio. Non il pezzo. Tant’è più passano gli anni e più le canzoni peggiorano. Sono sempre meno orecchiabili e spontanee e sempre più computerizzate».

Quindi cosa dobbiamo aspettarci dall’edizione numero settantuno?

«Ibrahimovic. Sanremo è questo, adesso. Perciò parlo di circo. Non ci sono più il rigore e la centralità della canzone. È una rassegna in cui c’è anche la canzone. Una prospettiva differente, direi».

La direzione artistica, tuttavia, sta svecchiando il prodotto. Si cerca una forma nuova, ibrida diciamo, con ammiccamenti vari al pubblico giovane grazie ad artisti capaci di rivolgersi anche, se non soprattutto, agli adolescenti.

«È una tendenza sempre più marcata, è vero. Cercare un target storicamente abbastanza ostile, ossia il pubblico giovanile. E direi che la direzione artistica ci è anche riuscita».

Si può parlare di Sanremo indie o underground, quindi?

«Non esattamente. Di fondo c’è un’incompetenza tecnica. A Sanremo pensano che l’underground sia rappresentato dai vari talent, o da chi spopola sui vari servizi di musica in streaming. Se la immaginano così, la scena alternativa. Ma il vero underground è fatto di gente che suona nelle pizzerie, in metropolitana, in locali vuoti. Qui, invece, premiano questi cantanti che escono dalle accademie e si esibiscono tutti in maniera più o meno simile. Ripeto: l’underground vero è fatto da gente che non si pone nessun obiettivo, se non quello di confrontarsi fra amici. Anche l’hip hop, prima di diventare mainstream, è nato con questo spirito. Il senso era far vedere agli amici l’idea nuova che ognuno inventava nella propria cantina. E la strada rappresentava il luogo perfetto per manifestare questa idea».

Quelli della mia generazione scrivevano canzoni per mestiere, per passione e per arte

Com’è cambiato, invece, il ruolo dell’autore?

«Molto, purtroppo. Quelli della mia generazione scrivevano canzoni per mestiere, per passione e per arte. Eravamo professionisti. Ed eravamo capaci, soprattutto. La figura dell’autore manca. Sì, c’è un team attorno all’artista e sì, ci sono quattro o cinque persone chiamate a scrivere pezzi. Tutte dotate di PC o Mac. Ma le canzoni, così, diventano tutte uguali e interscambiabili. Io, davvero, vorrei alzarmi la mattina, sentire un brano nuovo alla radio e dire che è una meraviglia. Che è stupenda. Non accade da anni. Sento, invece, canzoni raffazzonate, senza capo né coda, con testi melodrammatici. Siamo tornati indietro, ma non nel modo sano. No, siamo tornati indietro scegliendo il peggio. E dire che ai tempi c’era tantissima qualità in giro. Non voglio passare per il solito vecchio brontolone, ma trovo che la musica italiana attuale sia molto insipida. Mancano i cantautori».

Paradossalmente, però, la stampa incensa proprio il nuovo cantautorato italiano?

«D’accordo, ma dov’è? Di chi parliamo? Ognuno può dire o scrivere quello che vuole. Ma ai miei occhi i cantautori erano quelli là, di una volta. Dei nuovi mi piaceva molto Mannarino, che però è un po’ scomparso. Forse perché aveva e ha troppa qualità».

Un autore deve scrivere un brano universale o, quando si approccia ad un progetto, deve sempre avere a mente il cantante per cui lavora?

«Io ho sempre scritto su misura. Una sola volta non l’ho fatto, tirando fuori una sigla per un cartone animato, Goldrake, che però non era stata né scritta né ideata come una sigla. Io la vedevo come una canzone per adulti, forse il suo segreto fu proprio quello. Va, distruggi il male e va: c’era anche questo grosso contenuto del bene che vince sul male. Di ingredienti vincenti ce n’erano diversi. Comunque sì, ho sempre scritto su misura. Conoscevo l’artista, cercavo sempre un dialogo stretto. Intimo, anche. E man mano che entravo nella dimensione del cantante per cui scrivevo riuscivo a cucire pezzi sempre più precisi».

In chiusura, a quale Sanremo è più legato Massimo Luca?

«A tutti, ma se proprio devo scegliere dico quelli in cui ho ottenuto qualcosa. Nel 1995 con Grignani, ad esempio. Pochi giorni prima lui insistette per volermi sul palco, arrivando a dire che se non fossi stato al suo fianco non si sarebbe presentato. Si creò un casino inenarrabile finché io non tranquillizzai tutti, dicendo che sarei salito sul palco con Gianluca. E poi, ovviamente, citerei il 1998. Ero produttore, oltreché scrittore assieme a Paola Palma, di Annalisa Minetti. Vincemmo sia fra i big sia fra i giovani, un caso più unico che raro. Ma a Sanremo, quell’anno, portai anche Paola e Chiara e Costa. Fu un’edizione emozionante».

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