Anniversari

E Szeemann rivoluzionò il mondo dell’arte

Cinquant’anni fa a Berna la leggendaria mostra «When Attitudes Become Form»
Harald Szeeman nel 2003. (Foto Archivio CdT)
Dalmazio Ambrosioni
18.04.2019 06:00

Dopo d’allora, cinquant’anni fa, il concetto di esposizione d’arte non è più stato lo stesso, né mai lo sarà più. Dopo quei due discussi, polemici, intriganti mesi, marzo e aprile del 1969, di «When Attitudes Become Form» alla Kunsthalle di Berna. Chiamati, convocati uno ad uno da Harald Szeemann (Berna 1933- Tegna 2005), quella primavera arrivarono a Berna artisti che sarebbero diventati famosi, da Bruce Nauman a Mario Merz, Richard Serra e Walter De Maria, Mimmo Paladino, Alighiero Boetti, Gilberto Zorio e Sol LeWitt... solo per fare qualche nome di un elenco francamente strepitoso. C’era anche Joseph Beuys, che però già aveva un nome e un’aria da santone con quel cappellaccio perennemente in testa. Per molti fu l’occasione giusta per farsi conoscere e affermarsi; altri scompariranno, tritati dalla forza dell’evento o spazzati via dal tempo, dalla storia, dalle mode, magari dal mercato, dalla morte... Tutti però conservano una traccia indelebile in quei due mesi tra consensi, pochi, e dissensi, molti, che alla fine indussero Szeemann a dimettersi dalla direzione della Kunsthalle, che pure era divenuta di colpo un simbolo di novità e di libertà nel campo dell’arte.

Contro obblighi e convenzioni
Vi era stato chiamato nel 1961, a 28 anni, diventando uno dei più giovani direttori di musei al mondo. In otto anni e mezzo aveva trasformato quella tranquilla sede espositiva in una vetrina internazionale, concentrandosi sugli esiti più innovativi dell’arte contemporanea e sviluppando mostre storiche e tematiche per lo più fuori dagli schemi, come le indagini sull’arte cinetica, l’arte dei malati mentali, l’arte popolare religiosa... Tutte suscitarono interesse ed anche malumori, attirarono l’attenzione su quel giovane curatore così intraprendente, ma nessuna ebbe il clamore di «When Attitudes Become Form», entrata negli annali e passata alla storia. Perché Szeemann in quella primavera del 1969 non si era limitato a turbare i placidi ritmi della capitale, attivando una vivacissima catena di reazioni e persino repressioni - ad andarci peggio fu Daniel Buren, artista non invitato ma che aveva voluto esserci ad ogni costo, fermato dalla polizia per aver affisso senza autorizzazione, ma con aspra intenzione critica, le sue regolari bande di colore in giro per la città - ma era riuscito a creare un nuovo, rivoluzionario paradigma espositivo. Un modello di mostra in grado di stravolgere obblighi e convenzioni pur senza negare il recinto protetto, e mai veramente tanto necessario, del museo.

L’avanguardia più bruciante
«Live in your head: when attitudes Become Form. Works - Concepts - Processes - Situations - Informations»: questo il titolo completo della mostra che occupò, con il lavoro di 69 artisti europei e statunitensi le sale beneducate della Kunsthalle di Berna, dilagando anche negli spazi esterni al museo e nei locali della Schulwarte.

Oggi viene unanimemente riconosciuto che con quella mostra Harald Szeemann inventò il mestiere del curatore-autore: non più solo conservatore e installatore di opere, ma anche ideatore e pensatore di mostre. Mise insieme gruppi di artisti diversi che arrivavano dall’Arte Povera, dalla Earth Art o dal Minimalismo, ma anche da quella che si chiamava Impossible Art. Una mostra così oggi non si potrebbe fare, tanto era caotica e concentrata di opere, ma allora, cinquant’anni fa, si respirava un’aria diversa e Szeemann più di ogni altro aveva capito che l’arte e il modo di proporla non potevano più essere quelli tradizionali. Allora gli artisti, i nuovi talenti, se li andò a scegliere uno ad uno. Solo contro tutto e tutti: la mentalità del tempo, le attese dei frequentatori di mostre, gli spazi del museo, la politica, le ragioni dei benpensanti... Perché ad essere rivoluzionario era il concetto di fondo, ossia l’indagine dei processi artistici nell’arte concettuale sull’onda di un’attualità così bruciante che molti realizzarono i loro lavori direttamente sul posto, anche provocando qualche danno alla struttura della Kunsthalle: Richard Serra spruzzò piombo fuso sulle pareti, Joseph Beuys spalmò gli angoli con la margarina, Lawrence Weiner rimosse una sezione di muro e Michael Heizer demolì la fontana di fronte alla Kunsthalle con una palla da demolizione...

Dalle dimissioni al successo
Szeemann si dimise. Più tardi confesserà di aver cullato anche cattivi pensieri, ma da quel momento la sua carriera è stata un divenire di successi. Dopo quella mostra leggendaria ricomincia come freelance, inaugurando di fatto il modello del curatore indipendente, organizzatore di mostre slegato dalle istituzioni. Basti ricordare «Happening & Fluxus» per il Kölnischer Kunstverein di Colonia (1970), mostra che fece scandalo per le performance degli azionisti viennesi; nel 1972 per documenta 5 a Kassel realizza quella che è ancora considerata l’edizione più significativa e rivoluzionaria di quella storica kermesse d’arte. Ecco nel 1980 l’ideazione di «Aperto», sezione della Biennale di Venezia dedicata ai giovani artisti, creata insieme ad Achille Bonito Oliva; e finalmente, 1999 e 2001, due edizioni della Biennale di Venezia di tale forza innovativa da costituire dei precedenti di cui non si può non tener conto. E qui in Ticino non possiamo dimenticare la riscoperta e la valorizzazione del Monte Verità ad Ascona, con la sua storia e i suoi musei abbandonati da anni...

Mostre come opere d’arte
Oggi e da tempo Harald Szeemann è unanimemente riconosciuto come il curatore di mostre d’arte che più ha influenzato il mondo della cultura in epoca moderna, prima e dopo la caduta del muro di Berlino. «Le mostre sono le mie opere d’arte». E se gli chiedevi da dove nascevano, eccolo mostrarti un volumetto intitolato «Museum der Obsessionen», voluto da lui stesso e stampato nel 1981 a Berlino, Merve Verlag, con un’introduzione di Ingeborg Lüscher, la compagna della vita. Il Museo delle ossessioni era quel che aveva in testa, il suo mondo, i suoi archivi zeppi di carte, di scatole e scatole piene di profili, carteggi privati con artisti, fotografie, percorsi, documenti, oggetti collezionati, annotazioni di mostre realizzate o solo pensate. Una raccolta enorme a documentare cinquant’anni di carriera curatoriale, più di 150 mostre, acquisita 8 anni fa dal Getty Research Institut di Los Angeles. L’archivio come luogo fisico, ma anche e soprattutto paesaggio mentale che racchiude i momenti di genialità e intensità artistica delle sue mostre, realizzate e non realizzate, passate e future. Un mondo di carta e di carte in cui anche la più piccola e apparentemente marginale costituisce la tessera del mosaico di una vita dedicata all’arte da questo un vulcano di idee, pensatore anarchico innamorato dell’arte. «Harald sapeva amare, amava l’arte, amava gli artisti. E aveva un modo di amare totale, quasi smisurato e inverosimile» ha affermato Ingeborg Lüscher.