L’intervista

«Ecco perché è impossibile non amare Jack London»

La scrittrice italiana Romana Petri ha dedicato il suo ultimo libro al leggendario autore de «Il richiamo della foresta»
Jack London (1876-1916) fu anche giornalista, fotografo e drammaturgo di successo.
Matteo Airaghi
Matteo Airaghi
04.05.2020 06:00

Basta il suo nome, Jack London: lo scrittore leggendario di inizio Novecento. Il famoso, prolifico, discusso, avventuroso, rivoluzionario Jack London, una delle figure più affascinanti emerse dalle contraddizioni dell’America. Ne parliamo con Romana Petri che gli ha dedicato «Figlio del lupo», strepitosa biografia narrata sotto forma di romanzo.

Romana Petri, cominciamo dall’interessante struttura del libro: allo stesso tempo romanzo avvincente e documentatissima biografia di Jack London. Come è arrivata a questo risultato?

«In generale, quando si decide di scrivere di un autore, si comincia a rileggere tutta la sua opera, poi le varie biografie che sono stata scritte su di lui, e nel frattempo si prendono appunti. La regola dovrebbe essere questa. Ma Jack London è un personaggio speciale, uno che va di fretta e che ti chiede di corrergli dietro più o meno alla sua andatura. Credo di aver perso parecchi neuroni, perché con lui ho dovuto fare tutto in contemporanea. Ho riletto le sue opere cronologicamente e intanto le biografie, il tutto riempiendo interi quaderni di riflessioni, e questo mentre scrivevo il romanzo. Praticamente, quando ho finito di rileggerlo, di studiare la sua vita e di prendere gli ultimi appunti, mi sono ritrovata anche a scrivere le ultime parole del romanzo. Se dovessi dire come ho fatto, proprio non saprei. Di certo ho vissuto un periodo molto fosforico. Entusiasmante. Di grande immedesimazione. Non è stato per niente male essere lui...».

«Figlio del lupo» ha la capacità di raccontarci l’anima, le passioni e i tormenti del poliedrico e straordinario scrittore americano: perché ancora oggi questa figura quasi mitica e indefinibile non smette di catturare la nostra curiosità in ogni stagione della nostra vita di lettori?

«Non si può prescindere da London perché è stato un personaggio così estremo in tutto che ripercorrere le sue strade può essere solo molto affascinante. È stato socialista, ma anche individualista. Era per la libertà delle donne, ma non sapeva non dominare. Era carismatico quando scriveva e quando viveva. Gli uomini che lo conoscevano volevano essere lui, le donne la sua compagna. È stato anche l’ultimo romantico. L’unico scrittore al mondo che ha capito di essere uno scrittore quando era ancora un semianalfabeta. Lo ha capito dalla forza dell’urto del sangue che ha sentito dentro di sé. Non dominava ancora la lingua, ma era dominato dalla forza delle sue visioni. Insomma vedeva le storie che aveva dentro: i suoi precoci vagabondaggi e viaggi per mare. E allora lui, che aveva abbandonato la scuola a 10 anni per mettersi a lavorare e aiutare la famiglia, a 18 anni torna sui banchi di scuola. E dopo anni di tormento non diventa semplicemente uno scrittore, diventa il migliore. Possiamo privarci del piacere di leggere il migliore?».

Il suo libro è anche la conferma che la breve e intensa vita di London è stata contrassegnata da numerose e decisive figure femminili: ce ne vuole ricordare le più significative?

«Ha avuto una madre molto singolare, Flora Wellman. Era una spiritista, lo faceva per professione. Parlava con i defunti e loro le dissero che suo figlio sarebbe stato uno dei più grandi scrittori americani. Jack London non le credeva molto, ma di sicuro qualcosa deve averla introiettata con il latte materno. Era un materialista, ma ha scritto Il vagabondo delle stelle. Poi ci sono le donne che ha amato molto e quelle che ha amato meno. Lui aveva deciso che non si sarebbe mai strappato i capelli per nessuna, l’amore passione era un’invenzione borghese dell’Ottocento nella quale non voleva credere. Lui voleva credere nell’amore ragionevole. Ma dato che era un controsenso, i capelli ha dovuto strapparseli per ben due volte. La prima per Mabel, la ragazza che aveva creduto una dea e che poi, con il tempo, scoprì essere solo una piccola borghese che voleva un marito con il posto fisso. La seconda per Anna, la misteriosa, carismatica e intellettuale russa che ha ossessionato l’intera sua vita. La donna che non è mai riuscito ad avere confermando così che gli amori più intensi sono sempre quelli mancati. E poi Charmian, la seconda moglie, quella che lo conquistò essendo tante donna in una, ma che riuscì a farlo veramente suo plasmandosi in lui, diventando una specie di Jack London al femminile».

In che modo lo spirito dell’America e le sue convinzioni politiche caratterizzano il London narratore e giornalista?

«London portava con piacere sulle spalle le sue origini irlandesi, ne era molto fiero perché si sentiva profondamente anglosassone, forse anche in un modo leggermente ariano. Ma era anche americano al cento per cento, e dunque pragmatico anche nel sognare. Non dimentichiamo che la sua visione della letteratura era “un luogo di pochi profumi e molto odore di vita”. Era un socialista, ma anche un individualista che voleva diventare ricco per aiutare tutti, anche le persone che non conosceva. Se un suo lettore gli scriveva per complimentarsi con lui e alla fine concludeva dicendogli di avere pochi soldi, lui nella risposta metteva sempre un assegno. Ha guadagnato molto, ma ha regalato a molti. Una cosa che del suo pragmatismo mi commuove è che avrebbe desiderato scrivere poesie, ma rimandava quel momento perché la poesia non dava da vivere e lui voleva guadagnare molto per poter aiutare gli altri, per mettere su un ranch che desse lavoro ad almeno 500 persone. Non è mai arrivato per lui il momento di scrivere poesie».

Il suo amore per lo scrittore californiano deriva dagli insegnamenti letterari (e non solo) di suo padre Mario: vogliamo provare a tracciare un percorso tra le multiformi opere di London per invitare alla (ri)scoperta o all’approfondimento di questo personaggio straordinario?

«Mio padre me lo leggeva, recitava e interpretava. Poi mi dava il bacio della buona notte convinto di avermi conciliato il sonno. Invece contribuì solo alla mia insonnia perché le storie di Jack London non aiutano di certo a dormire. Se non si ha voglia di leggerlo tutto, suggerisco: Il richiamo della foresta, perché è un antesignano videogioco; Martin Eden per capire come sia possibile (e lo è) che vita e morte si compenetrino così tanto da diventare quasi una sola cosa; Il vagabondo delle stelle perché parla delle piccole morti, del corpo che riesce ad andare in astrale per non sentire i dolori della vita; Lupo dei mari per l’irresistibile attrazione che c’è tra i contrari. E perché l’orrore va saputo distinguere tra quello sbagliato e quello giusto che sì è deviante, ma solo per farci capire che quando si sceglie il male è solo perché si entra nel terreno del diavolo. Il mondo e l’uomo sono incompiuti, dunque quasi incolpevoli, dunque anche immeritevoli».

È francamente difficile leggere «Figlio del lupo» senza emozionarsi. Se per incantesimo lei potesse parlare direttamente con London posso chiederle che cosa si sentirebbe di dirgli?

«Gli direi che per mia sfortuna non ho mai conosciuto un uomo come lui. Ma che sono anche molto felice di non averlo conosciuto, perché se nella vita reale, nel tempo, ne fossi rimasta delusa, so che a un simile dolore non avrei retto. Gli direi che è il mio mancato amore. E dunque, e senza ombra di dubbio, il migliore».