L'intervista

Edith Bruck: «Io, sopravvissuta vivo per raccontare ciò che non deve più succedere»

In occasione della Giornata della Memoria, la scrittrice ungherese riflette sull'importanza di testimoniare l'orrore per fare in modo che nessuno dimentichi
Edith Bruck abbraccia papa francesco nel salone di Casa Santa Marta. ©ABACA
Dario Campione
26.01.2023 06:00

Nata nel 1931 a Tiszabercel in una famiglia ebrea molto povera, ultima di sei figli, Edith Bruck ha conosciuto la deportazione prima ad Auschwitz (dove fu internata con il numero 11152), poi a Dachau e a Bergen-Belsen. Giunta in Italia nel 1954, ha trascorso gran parte della sua vita a raccontare la terribile esperienza dei campi di concentramento. Lo ha fatto con i romanzi, i racconti, le poesie, le sceneggiature cinematografiche e televisive. E, soprattutto, incontrando decine di migliaia di giovani nelle scuole.

Signora Bruck, innanzitutto le esprimo la gratitudine del Corriere del Ticino per aver accolto la nostra richiesta di intervista. Vorrei partire da una considerazione dello storico francese Georges Bensoussan, il quale ha scritto qualche anno fa: «Per il mondo ebraico, e in particolare per i sopravvissuti, la Seconda Guerra mondiale e la Shoah sono i luoghi di una memoria intollerabile, inevitabile e difficile da trasmettere. Una memoria difficile che rimanda alla vergogna del ricordo, al grado d’impotenza cui si era stati ridotti, e alla vergogna indelebile dell’umiliazione». È d’accordo? E che cos’è, per lei, la memoria?
«Ricordare è difficile, certo. Ma io vivo per la memoria. Faccio testimonianza ogni giorno, da 62 anni. Lo faccio in ogni occasione possibile. Attraverso i libri, i versi, le interviste. Non finisco mai, perché lo considero un dovere morale».

Un dovere verso chi?
«Soprattutto verso i giovani. Credo che sia un obbligo morale raccontare loro che cosa è accaduto, anche perché spesso non lo sanno. Frequentano scuole dove insegnano male la storia, e nessun Paese ha fatto i conti con il passato, tranne forse in parte la Germania. A questo dovere della memoria siamo stati delegati noi sopravvissuti».

Che cosa pensa di questi giovani di oggi? Che cosa dice loro per far capire ciò che è accaduto?
«Sono distratti, un po’ smarriti, non hanno certezze. Il loro mondo è vago, cambia in continuazione ed è pieno di contraddizioni. Mi accorgo spesso che non riescono a trovare una propria, piena identità. Anche per questo è fondamentale che sappiano. Che ascoltino e vedano ciò che un uomo può fare contro un altro uomo. Non bisogna nascondere la crudeltà degli esseri umani, la verità è importante per far crescere una coscienza. Io dico sempre che bisogna “illuminare i ragazzi” affinché comprendano di essere parte di una storia: nessuno di loro deve poter pensare di non avere a che fare con quanto è successo nel cuore del ’900».

È convinta che il passato sia il nostro presente e anche il nostro futuro?
«Penso che il tempo sia uno soltanto: non c’è ieri, oggi o domani. Ciascuno di noi è frutto del passato e le persone di domani saranno inevitabilmente figlie di quanto accade oggi. Per questo serve la memoria, per questo i giovani hanno bisogno di sapere. Nonostante faccia una grandissima fatica, sono sempre felice quando incontro i ragazzi: la loro gratitudine, il loro affetto nei miei riguardi, mi fanno credere che le mie parole li aiuteranno a superare la barriera del razzismo o dell’antisemitismo. Vede, la storia non si ripete mai allo stesso modo, so che non succederà la stessa mostruosità che io ho vissuto, ma accadono comunque cose terribili: anche oggi, e non soltanto in Europa. C’è poi un altro elemento che, credo, rende importante il nostro racconto, il racconto di noi sopravvissuti».

Quale?
«Il fatto che, purtroppo, la generazione giovane parla poco con quella più anziana. Ho l’impressione che all’interno della famiglia e della società ci sia separazione; nelle case manca il dialogo, e questo è pericoloso per tutti. Purtroppo, oggi prevale la comunicazione meccanica, la voce fredda del cellulare; i ragazzi stanno tra loro come se non appartenessero alla storia, che invece li riguarda in modo diretto».

È difficile spiegarlo, ed è diverso essere ebrei e insieme sopravvissuti: siamo un’altra specie, non ci capisce nemmeno chi vive con noi

Lei ha detto: «L’essere ebrei non si vive con leggerezza». È ancora così anche oggi? E quanto è importante essere ebreo? Che cosa significa essere ebreo?
«È difficile spiegarlo, ed è diverso essere ebrei e insieme sopravvissuti: siamo un’altra specie, non ci capisce nemmeno chi vive con noi. Le racconto un episodio che mi è successo molti anni fa, quando ricevetti dal padrone di casa una lettera di sfratto. Mio marito mi spiegò che era soltanto una questione di soldi, volevano aumentarci l’affitto. Ma io piangevo, avevo l’impressione che, ancora una volta, mi stessero cacciando ed escludendo dal consorzio civile. In ogni caso, essere ebrei è diverso. Su tutti noi grava un carico enorme sulle spalle. A me, in particolare, pesano le generalizzazioni, i giudizi sommari».

Che cosa intende?
«So che se non ci fossero state millenarie persecuzioni, non ci sarebbe stato il frutto avvelenato dei campi di concentramento nazisti, qualcosa che è arrivato da lontano. Anche oggi si continua a dire che gli ebrei siano potenti, ricchi. Ma sono banalità che non finiscono mai, è l’innato antisemitismo che si alimenta in continuazione: io, ad esempio, vengo da una famiglia poverissima, come ce n’erano a migliaia nei Paesi dell’Est europeo; invece, quante volte si sente dire che siamo tutti Rotschild. Veniamo giudicati nel nostro insieme. Inesorabilmente. Ecco, nascere ebrei significa non poter essere un individuo singolo con pensieri diversi. Quel “voi ebrei” proprio non lo sopporto, è l’antisemitismo storico che non finisce mai, un giudizio che non si può separare. Aveva ragione David Ben Gurion quando diceva che finché le prigioni non fossero state piene di ladri e prostitute, Israele non sarebbe stato un Paese; quando si pensa a un popolo come una massa unica, tutta uguale, si fa soltanto razzismo».

Lei ha detto: «Per quello che mi riguarda non temo nulla perché ho visto il peggio». Mi sono sempre chiesto se, nell’animo di un sopravvissuto ai campi di concentramento nazisti, oltre alla paura si cancelli anche la speranza. C’è una frase terribile di Jean Améry che dice: «Chiunque abbia subìto la tortura nei lager non può più sentirsi a casa sua nel mondo. La vergogna della distruzione è incancellabile». Per questo le domando: esiste la speranza? E che cos’è?
«La speranza è ciascuna delle cinque luci trovate nei campi di concentramento e che ho raccontato nei miei libri. Il soldato che, al momento della selezione, sussurrò di andare a destra, verso il lavoro forzato, e non a sinistra, verso le camere a gas, verso la morte; l’altro soldato che mi lasciò un fondo di marmellata nella gavetta; il cuoco che a Dachau, di fronte alla bambina numero 11152, chiese “come ti chiami?”, mostrando umanità: come faccio a spiegare che, di colpo, mi restituì, con il nome, il mio essere umano, la mia dignità? E poi, ancora, chi mi regalò un guanto bucato: quel guanto era la vita, la bontà umana, la speranza di poter lottare e di andare avanti. Briciole di pietà, cose piccolissime che in determinate situazioni possono diventare gigantesche. Ripenso a quando, nuda, non mi vergognavo di fronte ai giovani in divisa della Hitlerjugend che mi sputavano addosso: mi dicevo, “non sanno quello che fanno”. Non sono riusciti a disumanizzarmi».

E la quinta luce?
«La mano che ha rimesso nella fondina la pistola che doveva uccidermi».

Per raccontare lei ha scelto in prevalenza la scrittura. È sempre del parere che «scrivere sia più facile di dire» e che «la carta conceda la massima libertà»?
«Io ho cominciato a scrivere nel 1946 perché, all’epoca, nessuno ci ascoltava, nessuno ci accoglieva; avevo un veleno dentro, e volevo buttarlo fuori, ma gli altri erano sordi e ciechi, non ci prestavano attenzione. In confronto a questo atteggiamento, fame e freddo sono nulla. Per questo motivo ho cominciato a scrivere, per quanto non fossi pienamente cosciente di voler diventare scrittrice. Poi, dopo essere arrivata in Italia, ho capito che una nuova lingua mi avrebbe aiutata. Anzi, a essere sinceri l’italiano è stata la lingua che mi ha dato la salvezza. L’ungherese mi faceva male, mi ricordava le bestemmie, gli insulti, le minacce che mi erano state rivolte contro dai soldati ungheresi che ci avevano preso e consegnato ai tedeschi, ai nazisti. Era la lingua della persecuzione. Al contrario, l’italiano aveva e ha tuttora il sapore della libertà».

Non sono mai stata sola a raccontare. Molti sopravvissuti lo hanno fatto. E quando non ci saremo più, parleranno i nostri libri, i nostri versi, le nostre testimonianze

Suo marito, lo scrittore e regista Nelo Risi, ha scritto in una poesia: «Da solo / uno può ma non molto». Lei ha mai paura di essere sola in questo tragitto della memoria?
«No, perché non è così. Non sono mai stata sola a raccontare. Molti sopravvissuti lo hanno fatto. E quando non ci saremo più, parleranno i nostri libri, i nostri versi, le nostre testimonianze. Certo, l’augurio è che non vada perduto tutto, guai se dovesse accadere. Se cancellasse la memoria della Shoah, il mondo farebbe soltanto male a sé stesso, la darebbe vinta a chi vuole negare la verità o abbellire la storia. C’è, in effetti, un nuovo fascismo che tenta di farlo: è qualcosa di terribilmente tragico per l’umanità in sé, non soltanto per gli ebrei».

Vede all’orizzonte il pericolo di un nuovo negazionismo?
«Non lo so. Certamente, il negazionismo ci distrugge dentro. Ricordo quando Primo Levi mi chiamava e mi diceva, “guarda quello che stanno facendo, negano con noi vivi”. Era come se lo accoltellassero, qualcosa di terribile a cui purtroppo non seppe resistere. Ricordare, smentire chi nega, ha dato senso alla mia vita di sopravvissuta. Ogni volta che mi è stata data la parola è stato importante».

Una parola che lei non ha poi utilizzato solo per parlare dell’Olocausto.
«È vero, a me interessa tutto quello che accade perché ci riguarda, sempre. Soprattutto oggi, in cui le distanze sono state annullate, in cui non c’è più lontananza. L’Iran è casa, la guerra in Ucraina è casa, la fame di ogni singolo bambino è casa. E non possiamo più dire “non sappiamo”, così come non lo potevano dire i tedeschi che vivevano vicino ai campi di concentramento: loro hanno visto me, e io ho visto loro. Sapevano tutto».

Papa Francesco l’ha definita «un punto di luce in uno degli abissi più tenebrosi della storia dell’umanità». Nel febbraio di due anni fa il pontefice venne a trovarla a casa. Un fatto straordinario. Da allora vi siete visti altre volte. Che cosa lega un’ebrea sopravvissuta ai lager al capo della Chiesa cattolica?
«Credo che sia il rispetto di ogni persona, non la tolleranza, parola che detesto. Rispettare gli altri, conoscerli, allontanare il male che è dentro di noi: questo ci unisce. La consapevolezza che il bene vada alimentato e il male vada invece affamato. Che in ogni uomo ci sia bene, e che non ci siano vite il cui valore è minore di altre. Soprattutto, che non si debbano alimentare l’odio e il razzismo».

Lei in un’intervista, rivolgendosi ai giovani, ha detto: «Ribellatevi, protestate, urlate e non state mai zitti di fronte a un torto, a chiunque capiti; che sia nero, bianco, giallo, ebreo, musulmano. Rispettate il prossimo, accettate quello che è e rispettate quello che crede. Non odiate mai nessuno perché dall’odio nasce l’odio. Dal male nasce il male. La vendetta è la cosa peggiore che ci sia». Davvero non ha mai avuto sentimenti di vendetta verso i carnefici dei lager nazisti?
«No, l’odio non concede alcuna via d’uscita. Non se si vuole sconfiggere il male, diventare migliori. Alla fine della guerra mi capitò di portare a casa cinque fascisti, proteggendoli da chi li cercava per ucciderli. Avevano paura che li denunciassi ma non l’ho fatto, non mi sono vendicata. “Chi mi colpisce con la pietra, io colpisco con il pane”. Questo penso. Che si debba fare pace con il nemico, che si debba aiutare a cambiare chi ti vuol male. È possibile farlo? Credo di sì, accettando e rispettando tutte le diversità, rinunciando a prevaricare».

Ma intanto, nel cuore dell’Europa, una nuova guerra sta scatenando e alimentando odio.
«Quando papa Francesco ha varcato la soglia della mia casa, ha prima di ogni altra cosa chiesto perdono per la persecuzione ebraica millenaria, senza la quale non ci sarebbe stata Auschwitz. Capirsi è possibile. Se si vuole farlo. Purtroppo, spesso l’uomo è incorreggibile. Non si ama, non sa amare, va verso l’autodistruzione. “Malato è il mondo”, come dice lo stesso pontefice, perché noi accettiamo soprattutto chi ci somiglia, non gli altri, che non vogliamo nemmeno conoscere. Un atteggiamento che spiega pure il nuovo-vecchio antisemitismo, che aleggia ovunque. In molti Paesi d’Europa stanno tornando al potere gli eredi del fascismo, è una cosa terribile. Significa che gli uomini non imparano dai propri misfatti, negano sempre ciò che hanno fatto, lo sminuiscono, non si assumono alcuna responsabilità. Perdono memoria. E tutto comincia da capo».